INTERVISTA

a Giorgio Pelagatti,

di Silvia Pelagatti


Mio padre si chiama Giorgio Pelagatti, è nato a Calenzano nel '27 e a soli due anni rimase orfano di padre. Il fratello maggiore, Silvano , fu mandato in collegio, la madre non riuscì da sola a provvedere né economicamente né affettivamente a mio padre. Gli anni della sua infanzia e prima giovinezza passarono con molte privazioni, lavoro nei campi, poca istruzione e poca spensieratezza. Penso comunque che possedesse fin da allora la forza e la bontà d'animo che lo caratterizzano e che sicuramente lo hanno salvato da tutti i pericoli del mondo. Nel '47 a venti anni, conobbe Don Lorenzo Milani, al quale venne affidata la parrocchia di S. Donato. Questo incontro fu determinante per la vita di mio padre che per la prima volta trovò il maestro, il padre, la guida che non aveva mai avuto. Seguì il priore sempre, sia a S. Donato sia dopo il trasferimento a Barbiana, fino alla sua morte che avvenne un mese e mezzo dopo la mia nascita. Quando seppe che ero nata, nonostante la sua condizione di estrema sofferenza, volle vedermi; mi adagiarono vicino a lui nel letto e ben presto si accorse che non aveva nemmeno più la forza di togliere il suo dito dalla stretta della mia mano. "Questa neonata ha più forza di me, mamma!", disse in modo scherzoso a sua madre, con quella ironia che lo ha accompagnato fino alla morte. Fu così che la mia nascita e la sua morte si incontrarono, ma fu solo l'inizio.

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Don Lorenzo ha detto più volte ai suoi allievi: “Adesso vi insegnerò a morire”. Cosa puoi dire in proposito?

A me non l'ha mai detto. Anche se della morte ne ha parlato varie volte. La sua era una visione perfettamente cristiana, quindi la morte come evento naturale che fa parte della vita, un passaggio a un mondo migliore pur riconoscendo e rispettando il dolore di chi resta. Ci ha aiutato a non aver paura della morte soprattutto vivendo bene la vita.

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Che peso ha avuto la sua morte nella sua vita?

Don Lorenzo preparò noi tutti alla sua morte. A me personalmente chiese se per caso pregassi perché restasse in vita. Io risposi di no e lui ne fu felice. Mi disse di non farlo perch' era giusto che lui se ne andasse. Aveva già fatto tutto quello che doveva. Fra l'altro gli ultimi anni della sua vita erano stati davvero molto faticosi, a parte la malattia.

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Parlaci del vuoto dopo la sua morte.

Io di lui ho bisogno 10 volte al giorno. Non ero un vero alunno. Bensì un ascoltatore. Ho accolto ciò che dava e spero di aver trasmesso a qualcuno ciò che ho imparato. Lui ha seminato sicuramente parecchio. Alcuni semi hanno fiorito altri non so. Dopo la sua morte siamo rimasti sbilanciati, senza cura, come le piante di un giardino quando muore il giardiniere. Le piante vivono, ma senza più quell'ordine. “Ben sapranno i miei figlioli fare più di ciò che ho fatto io, ma che dico i miei figioli! I miei nipoti!” Invece, dopo la sua morte, ci sono state molte lacerazioni. Ognuno ha fatto ciò che ha creduto meglio. Lui faceva da collante fra noi così diversi. La sua cultura, la sua simpatia, la sua volontà e il suo amore ci tenevano insieme gli uni con gli altri. Dopo la sua morte sono tornati i condizionamenti di prima, anche se mi auguro che in tutti sia mutato qualcosa, pur individualmente.

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Cosa vorresti trasmettere agli altri dall'insegnamento che hai ricevuto?

L'aspetto più grande di don Milani era l'amore per i suoi ragazzi e la forza per difenderlo ad ogni costo. Quindi Amore, coraggio, autenticità. Combattere se c'è da combattere, ma saper anche gustare le bellezze della vita, rallentare il ritmo e godere di un tramonto e dei tanti miracoli della natura. Sopravvivere, ma non conquistare più di quanto ti sia necessario. Modestia.

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Lo hai più amato o stimato?

Direi stimato, anche se l'ho molto amato e lo amo tutt'ora. Il fatto è che sapeva essere anche molto indisponente. Non gli ci voleva niente a trattare male chiunque ostacolasse il procedere verso il suo obiettivo. L'importante era non offendersi troppo da chiudere il rapporto, perché chi l'ha fatto ha sicuramente perso molto. Non era né dolce né affettuoso con nessuno, forse con Marcello, bensì piuttosto arrogante e distaccato, grazie anche all'educazione ebrea aristocratica ricevuta. Di lui dovevi innamorarti dell'abilità intellettiva, di ragionamento, della dialettica e della capacità di tenere tutti svegli.

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Quale è stato il momento in cui ti ha veramente conquistato?

Sapevo che era arrivato un nuovo Cappellano a San Donato, ma io ancora non lo avevo conosciuto. Lui probabilmente aveva già capito la situazione di Calenzano e aveva messo in atto un suo piano di lavoro. Era il '47, la guerra era finita da poco e c'era ancora molta miseria. Lui iniziò ad andare a caccia di ragazzi disagiati per poterli seguire e aiutare. Un giorno venne anche a casa mia. Avevo 20 anni e lavoravo in una fabbrica tessile a Prato, facevo i turni e vivevo con mia madre, vedova da 18 anni, e piuttosto depressa. Il giorno che venne don Lorenzo ero da solo a casa e ero malato. Lui si presentò e iniziammo a parlare. Quando seppe che ero iscritto alla D.C. cominciò a controbattermi. Io mi difendevo e entrammo così in polemica. Ricordo il suo modo, fermo, deciso, che via via mi stringeva in un angolino, me e le mie fragili idee. A quel punto io accettai la sconfitta, rimasi senza repliche e dissi a don Lorenzo che avrei ripensato alla nostra discussione e che ne avremmo riparlato in seguito. Questo mio atteggiamento colpì molto don Milani, che quasi quasi si vergognò di aver messo in evidenza la sua dialettica controbattendo un povero ragazzo che aveva fatto a mala pena la quinta elementare. Diciamo che ci colpimmo a vicenda e che da lì iniziò il nostro rapporto. Nacque la scuola popolare, ma io non l'ho mai frequentata perché i miei turni di lavoro non me lo permettevano. Andavo il venerdì alle conferenze e quando potevo. Anno dopo anno la nostra intesa cresceva. C'erano talvolta delle discussioni, ma io condividevo le sue decisioni e gli sono stato molto vicino soprattutto gli ultimi tempi quando le sue lotte con la chiesa richiedevano molta energia, fino alla partenza per Barbiana. L'ho seguito anche dopo, a Barbiana. Andavo la domenica. A Barbiana lui ha molto sofferto e nello stesso tempo ha avuto le più grandi soddisfazioni.

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Ti senti in qualche modo salvato dal fatto di aver vissuto un periodo della vita con lui?

Indubbiamente sì. Mi chiedo spesso: “Se io non lo avessi incontrato, chi ero? Dov'ero?” Mi sento salvato da mille pericoli. E' stato senz'altro un maestro di vita. E non è bastata certamente la sua morte a interrompere la lezione. Il suo è stato un servizio vero per il mondo e tanti ancora ne raccolgono i frutti. La sua scuola era anche una scuola pratica. Sapeva fare di tutto: imbiancare, riparare macchine, motori, telefoni. Teneva i ragazzi sempre occupati con qualche insegnamento, dalla storia alla riparazione di un cavo elettrico. A Barbiana si sentiva solo il dispiacere di tornarsene a casa. Erano giornate intense, vissute attimo per attimo, con estremo interesse per tutto ciò che si faceva.

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Silvano studierà alla Madonnina del Grappa e diventerà medico