Intervista di Neera Fallaci:
Fu il pittore Hans Joachim Staude a indirizzare Lorenzo Milani, con i suoi insegnamenti sull'arte, alla ricerca di un "assoluto spirituale". Lo si deduce chiaramente dai ricordi di Staude stesso registrati non molto tempo prima che l'artista morisse.
Lo andammo a trovare nel padiglione dell'ospedale di Firenze dov'era ricoverato. Aveva pudore a lasciar ascoltare i suoi discorsi al compagno di camera. Preferì alzarsi dal letto su cui stava disteso e, camminando con una lentezza che accentuava la sensazione di fragilità della sua persona alta e magra, si diresse in una stanza vuota con degli attrezzi per la fisioterapia. E lì ci parlò di Lorenzo Milani, delle idee sulla pittura che gli aveva comunicato, esprimendosi in un curioso italiano dalla cadenza tedesca, e le "c" e le "p" aspirate alla fiorentina.
Parlò a lungo, con garbo da gran signore, spesso indugiando su una frase, su un pensiero: pareva dargli noia, soprattutto con certe riflessioni sull'arte, uscire dal suo guscio di riservatezza. D'un tratto, fece: "Io devo essere con lei molto scortese, ma mi sento debole". Si alzò e si allontanò. Camminando ancora più lentamente, diafano e fragile. Un cancro ai polmoni gli avrebbe concesso altri tre mesi di vita soltanto.
Signor Staude, come conobbe Lorenzo Milani?
"Lo accompagnò nel mio studio in via dei Serragli, a Firenze, il professor Giorgio Pasquali: un uomo famoso che mi onorava della sua amicizia. Eravamo stati qualche volta insieme anche a passeggiare su Monte Morello. Aveva questa curiosità verso di me, forse perché sono tedesco e lui parlava tedesco. Poi conosceva la mia pittura, sapeva che insegnavo. E mi offrì una vera prova di fiducia accompagnando da me, come scolalro il figlio di un amico. Mi presentò Lorenzo Milani: un ragazzo con una bella figura slanciata, simpatico, cortese con grande naturalezza, l'aria tipica del giovane di famiglia benestante. Pasquali spiegò che era figlio di un suo amico carissimo, e pronipote del grande umanista Comparetti. Aggiunse che il ragazzo aveva detto di voler fare il pittore, appena ottenuta la maturità classica, con grande sorpresa dei genitori a cui prima non aveva mai accennato nulla del genere".
Lorenzo Milani non le disse che gli piaceva dipingere da ragazzino?
"No. Trovai in questo scolaro una completa non preparazione. Fui io a fargli fare il primo, vero disegno della sua vita. Mi resi subito conto che era un giovane dotato di grande intelligenza. Così, invece di limitarmi a correggere i suoi disegni, gli spiegai da che cosa doveva partire: gli parlai della scelta di tutto ciò che è essenziale; gli parlai della semplificazione; gli parlai della unità che deve regnare in ogni lavoro, disegno o pittura che sia. E lui capì al volo queste cose. Si mise subito, con moltissimo impegno, a tentare di metterle in pratica. "Per me, una cosa memorabile è proprio lo slancio con cui si mise all'opera per realizzare quanto gli avevo comunicato. Mai avevo trovato tanta veemenza in uno scolaro. Mentre fuori era il più bel maggio del mondo, si chiuse in questo studio polveroso che prendeva luce da nord. E rimase lì, per cinque o sei ore, a disegnare un manichino di legno che gli avevo dato come soggetto. La sera, tornando nello studio, trovai che aveva coperto di disegni un mucchio di fogli. Mi sentii molto soddisfatto: aveva capito bene la lezione. Però non mi convinse. Aveva capito tutto quanto gli avevo detto, ma rimaneva in quei disegni una sorta di freddezza. La sua era semplicemente una severa applicazione di regole che aveva sentito. E' importante che, nel lavoro dello scolaro, ci sia qualcosa di inatteso, che non gli hai dato te, che viene fuori da una sua interpretazione. In quei disegni non c'era. Non ho mai creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la strada di Lorenzo Milani: mai.
Quell'estate, venne con me e la mia famiglia sul Lago Maggiore. L'osservavo mentre dipingeva. Metteva sempre il cavalletto accanto al mio. Tentavo di allontanarlo: "Cerca da solo il tuo soggetto. Voglio che tu parta da una sensazione tua, non che ti imbarchi sulla mia barca". Girava per una mezz’ora, e poi finiva per tornarmi vicino. Eppure doveva aver capito abbastanza, per prendere quanto aveva capito e adoperarlo con un soggetto suo. In quel periodo non riusciva a scegliere un soggetto da sé ".
Copiava lei?
" No! Questo non è vero. Per esempio, standomi al fianco col cavalletto, Lorenzo dipinse un quadro: una cosa molto semplice ma dove c'è una forza tutta sua. L'ho in casa io quel quadro. E' uno scorcio di via delle Campora, la strada dove abitavo anche allora. Si vedono dei muri fiorentini con degli olivi, un cipresso, nessuna ombra... Poi ho visto, in casa della madre, dei paesaggi che Lorenzo Milani dipinse quando aveva uno studio a Milano. Anche lì ci ho trovato della personalità. Era un ragazzo capace di avvertire un godimento sensuale per il colore. Invece, come disegno di figura umana, non ricordo di aver visto qual cosa che mi avesse impressionato. Cominciò a disegnare figura quando era ancora con me. Uno dei suoi primi soggetti fu il ragazzo del macellaio che aveva una bella testa, con un profilo perfetto".
Un sacerdote catalano ha scritto che lei, signor Staude, è "un uomo profondamente credente" e che, a Lorenzo Milani, "sottolineava sempre l'importanza dello spirito religioso nella pittura".
" Veramente sono un uomo che è molto lontano dal cristianesimo. Sempre più lontano. Sono un simpatizzante del pensiero dell'oriente; buddismo, insomma. In un momento di grande difficoltà e di smarrimento, ho ricavato un aiuto enorme da un libro che parlava di esercizi spirituali orientali: esercizi di respirazione, di autotranquillizzazione... Sono díventati una parte importante della mia esistenza. Mi mettono in contatto con ciò che è essenziale. Non so se lei conosce una frase di Eckhart, il mistico tedesco del Trecento, che dice: "Non pregare. Ascoltare". Comprende il significato di quell'"ascoltare?" Ma questi sono pensieri che ho chiarito molto più tardi. Con Lorenzo parlavo del senso sacrale della vita. Perché il mio scopo di pittore è di far diventare sacra la realtà che mi circonda, è di esprimere "il santo" che è nel profondo di tutti noi... E' la prima volta che dico queste cose. Le dimentichi".
Lei ha una scuola Signor Staude?
"No, una scuola no. Ho uno studio in via dei Serragli, sull'angolo di via Serumido, dove ammetto dei giovani a lavorare con me. L'insegnamento è un fattore molto importante della mia vita. Direi che il comunicare le mie esperienze a degli scolari è quasi importante, per me, quanto la pittura stessa. L'essere continuamente circondato da gente che vuole imparare, mi toglie quel senso di solitudine che spesso un artista può sentire. Non mi sento affatto un isolato. Lorenzo Milani è stato uno dei primi scolari a farmi comprendere come l'insegnamento sia una cosa degna. Anche se non ho mai creduto, ripeto, che la pittura fosse la sua strada".
E quale pensava fosse la strada di Lorenzo Milani?
" A me sembrava un ragazzo più portato per la letteratura. Quell'estate sul Lago Maggiore, ricordo con quale entusiasmo leggesse D'Annunzio. Ma non aveva gusti estetizzanti, come altri giovani intellettuali della sua generazione. Approfondiva sempre tutto. Non parlava per esprimere un pensiero con eleganza. Parlava per capire meglio le cose. Voleva capire sempre più a fondo, chiarirsi bene le idee ".
Con lei ascoltava o discuteva?
"Ascoltava molto. Molto. Non ho mai avuto discussioni con lui. Avrebbe dovuto insistere più a lungo con la pittura per arrivare al punto di potermi dar battaglia, non le pare? Nel tempo che è rimasto con me, mi sono sempre sentito il maestro".
Quanto tempo studiò pittura con lei?
" Non molto. Da maggio a settembre, se la memoria non mi tradisce. Poi tornò a Milano. Mi meravigliai che non continuasse a studiare con me: l'avevo sentito affezionato, molto interessato... Era nata anche una buona amicizia tra noi, tanto che ci davamo del "tu". Per questo mi chiedevo: "Ma perché torna a Milano?" Mi accorgo però, ora che lei mi sta interrogando, come in fondo sapessi poco di Lorenzo. Ero sempre troppo preso dal mio lavoro, per provare curiosità verso lo scolaro. Mi vengono in mente soltanto alcune cose. Che era uno sportivo... Uno sportivo strano che giocava anche agli scacchi e che amava discutere della Divina Commedia con persone competenti.
A Milano sarà tornato semplicemente perché la sua famiglia, a quel tempo, viveva lì.
O, forse, perché stando nel mio studio gli mancava l'eco dei suoi amici. Sentivo qualche volta, mentre lavorava con me, che aveva bisogno di quegli interlocutori. Si vedeva che stava volentieri in mezzo ai giovani, e che c'era in lui questo desiderio di vivere in una comunità. Secondo me, era predestinato a finire in un convento o in un esercito. Insomma era un uomo che doveva stare tra gli uomini. Anche a Barbiana le sue scolare non avevano mai con lui quella vicinanza che potevano avere i ragazzi. Barbiana era una comunità maschile; come Calenzano, del resto".
Le ha mai scritto dopo aver smesso di studiare con lei?
" Ricordo due lettere che mi scrisse a non più di cinque settimane di distanza. Era passato molto tempo dalla sua partenza per Milano. La prima di quelle due lettere era piena di notizie. Tra l'altro, Lorenzo mi scriveva che aveva conosciuto Bruno Cassinari: " Ho incontrato un pittore che mi interessa abbastanza come individuo. Fa una pittura strana. Ci vediamo qualche volta ". Ne parlava come di una conoscenza occasionale, non come una amicizia.
Nella stessa lettera accennava a una ragazza di Milano con la quale discuteva molto di liturgia. E, nel postcriptum, diceva queste parole:
" Tra poco, mi farò frate ". Proprio: frate. Io la presi per una boutade, per uno scherzo, tanto che non toccai neanche quell'argomento nella risposta. La presi per uno scherzo, perché sapevo come la pensasse sui preti e sulla chiesa quando era mio scolaro. Nella lettera che mi scrisse dopo non più di cinque settimane, mi comunicava che era deciso a farsi prete e a entrare in seminario".
E' sicuro che le lettere venissero da Milano?
" Sì. Ma non so precisare che date avessero, perché è passato troppo tempo. Dopo non ci siamo più sentiti, se non quando lui era già in seminario... Le racconto volentieri questo. Lorenzo era già in seminario a Cestello, qui a Firenze. Venne a trovarmi in via delle Campora. Stava molto bene col nero ma, personalmente, non lo vedevo volentieri con quel vcstito nero. E colsi l’occasione per chiedergli: " Ma Lorenzo, dimmi un pò, come mai questo cambiamento? " Perché, ripeto, prima era stato molto lontano da preti e chiesa, diciamo così. Dette una risposta per me indimenticabile: "E’ tutta colpa tua. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un'unità dove ogni parte dipende dall'altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un'altra strada ". " Ebbi un sussulto. Ero molto contento, perché aveva ascoltato quanto avevo cercato di comunicargli. Anzi, mi sentii battuto: compresi che aveva fatto un passo più grande del mio... anche se non ci tenevo affatto a imitarlo. Poi Lorenzo ha avuto quella magnifica vita. Lo dimostra il fatto che, dopo tanti anni, è una figura talmente presente, talmente vibrante, che ancora porta all'entusiasmo molte persone. E che arricchimento hanno avuto da un simile incontro i suoi scolari! In questo c'è la gloria di Lorenzo ".
Seguitò a vederlo quando divenne prete?
" Nei tempi in cui era in seminario ci siamo veduti pochissimo. Tenga presente che c'era anche la guerra. E poi ci fu il passaggio del fronte dalla città. Eravamo in ottimi rapporti quando Lorenzo era cappellano a San Donato, dove aveva aperto una scuola popolare per giovani operai e contadini. Una volta mi chiese di tenere una conferenza su Bach alla sua scuola, perché io amo molto la musica. Mi chiese, in particolare, di suonare al pianoforte brani di Bach spiegandoli. Mi piacque l'idea di collaborare con lui: lo trovavo originalissimo, lo ammiravo. Fu una serata indimenticabile. C'era una curiosità, un'avidità di sapere in quei giovani. Un contatto davvero molto vivo. Poi suonai anche delle canzoni francesi e le cantammo tutti insieme..
" A Barbiana le cose cambiarono. Era ammirevole osservarlo circondato dai suoi ragazzi. C'era intorno a lui una calda atmosfera d'amore: perché era veramente amore quello che ogni ragazzo gli dimostrava, e che lui dimostrava a ognuno di loro. Ma c'erano cose che non mi piacevano. Per esempio trovavo che esagerava quando, per rimproverare i bambini, usava espressioni tipo " bischeraccio ". Mi dava noia. Naturalmente non fu per quello che mi allontanai, che gli facevo solo qualche visita ogni tanto... Lo vedevano molto di più amici come Giorgio Falossi, che erano diventati fervidi ammiratori e seguaci di Lorenzo Milani proprio ai tempi di Barbiana. Mi allontanai in quanto ero abituato a essere io quello che comunicava a lui. Ma non era più curioso di quello che potevo comunicargli ".
Era diventato lui il maestro.
" Sì, ma non per me. Io non lo volevo affatto come maestro! Aveva da insegnare qualcosa che non mi toccava. Perché ora le parlo molto liberamente. Io non l'ho mai visto volentieri con quel vestito nero. Mi dispiaceva che fosse entrato nella Chiesa cattolica dove, tra l'altro, ha dovuto urtarsi e soffrire parecchio. E mi ha sempre meravigliato quel suo volerci restare dentro, nonostante le vessazioni che aveva ricevuto e riceveva. Ma chi glielo faceva fare? Per me era, ed è, una cosa difficile da capire. Addirittura incomprensibile".