Scuola di Barbiana-Home-Scuola di Barbiana

Scuola di Barbiana-Home-Scuola di Barbiana


I_care







“LA PAROLA COME PERSONAGGIO”un'importante intuizione del Priore di Barbiana
"Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci, venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi. La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua."

Per il nostro Maestro le parole assumono la valenza di parola-azione: azione rivolta a innovare non solo la didattica, ma perfino il tessuto sociale vissuto dagli allievi.

Come ha ben descritto Rita Fumagalli, nel nostro secondo Convegno Nazionale di Barbiana 2040 al Liceo Giotto Ulivi di Borgo San Lorenzo, e lo hanno confermato gli interventi delle insegnanti, il lavoro svolto dalla nostra rete ha voluto rivisitare il mondo di Barbiana e di San Donato, alla luce dei cambiamenti epocali, dentro i quali la tecnica sta prendendo il sopravvento sull'uomo. Infatti, il nativo digitale e il suo contesto di realtà sono cambiati e questo spiega il titolo del convegno: rilanciare l'esperienza della Scuola di Barbiana, come paradigma fondativo della scuola di oggi. Nel farlo, non possiamo dimenticare il messaggio che il Priore ci ha lasciato in eredità: “Essere fedeli a un morto è il massimo dell'infedeltà”, e ancora, “da vivo mi hanno perseguitato, da morto mi esalteranno, ma voi difendetemi da ogni sorta di mistificazione”.

Esaminando, nei laboratori del progetto Barbiana 2040, la parola scuola, scopriamo che il suo vero significato sta in profondità. Dalla parola scholè, nel suo etimo, abbiamo tratto la prima considerazione: la parola si è trasformata nel suo contrario. Sempre le parole riflettono il loro contrario, altrimenti non ci condurrebbero al ragionamento. Platone ci dice nel Timeo che scholè significa: il tempo del non assillo, dell'indugio e della lentezza.

Gianfranco Zavalloni, in “Pedagogia della lumaca”, riprende questo concetto dalla bocca di una bambina: “La maestra dice sempre: dobbiamo finire il programma! Corriamo, corriamo. Ma mamma, dove dobbiamo andare?”

Con che criterio abbiamo organizzato il tempo scuola?

Fin dal primo incontro, abbiamo capito che la pausa è utilizzata nella prassi scolastica come una scansione, nella convinzione che ciò rivitalizzi il momento scolastico. Non costituisce più una riflessione che insegue la logica della continuità educativa, ma finisce per essere un'interruzione di fatto. Questa frammentazione genera nel nativo digitale, già indotto a vivere un presente astorico, senza cesure e senza fine, una vera e propria scissione mentale, che a sua volta si traduce in ansia, quando non in angoscia. Un condizionamento lento, che, iniziato a scuola per mezzo di un messaggio quasi sempre unidirezionale, come quello della lezione frontale, nel tempo ha addestrato l'allievo a vivere il fluire continuo di immagini e informazioni. I genitori, affidando il pargolo alla tata display, hanno rinforzato tale atteggiamento e la macchina ha fatto il resto. Ne consegue il diffondersi delle tante forme di medicalizzazione. Ma quando i bambini giungono alla scuola dell'infanzia, privi di mappe concettuali ed emotive, la scuola, invece di inviare il giusto feedback alle famiglie, persevera in questa prassi sbagliata. L'informazione, acquisita in modo meccanico, non è più percepita come dato da elaborare. Si produce in tal modo un fenomeno inavvertito, che ha, prima rinchiuso dentro il loop del cellulare, in seguito ha determinato pericolose logiche di dipendenza e incapacità a decodificare. Infatti la nozione, raccattata e non riflettuta, diventa un taglia e incolla funzionale agli esami, ma che in realtà non si deposita nella mente del ragazzo, non arricchisce il bagaglio di competenze utilizzabile nei contesti reali.

L'esperienza vissuta in vetta al monte Giovi, dove i campi aridi e pieni di sassi rendevano impossibile contenere l'esodo dalle campagne, impedirono al nostro Priore di raggiungere un sogno: formare un contadino istruito, senza quella timidezza atavica, che lo aveva reso incapace di difendersi e di trasformare l'ambiente dentro il quale miseramente viveva. Al nostro Maestro, affascinato dal sempre collaborativo montanaro, sembrò logico trasferire nel mondo della scuola il lavoro cooperativo. A Zangrilli, dirigente dell'Istituto dove i suoi allievi andavano a dare gli esami, e che aveva posto la domanda di spiegare il miracolo di Barbiana, così rispondeva: “Devo il miracolo di Barbiana alla cultura contadina. I contadini sono gli unici veri educatori, perché non scherzano con i ragazzi e subito fanno capire loro quanto è dura la vita e quanto duro è guadagnarsi il pane”. Riconoscendo i valori presenti “nelle loro menti e nel loro cuore”, li rese consapevoli di essere “cittadini sovrani”. Finalmente gli strumenti, con cui avevano costruito le strade ai proprietari terrieri, furono utilizzati per soddisfare i loro bisogni. Ciò presupponeva un salto, quello che Freire chiamerà, diversi anni dopo, coscientizzazione. Questo tempo liberato, prima impensabile, fu impiegato in attività utili a tutta la Comunità: costruire la strada, la piscina per svagarsi e imparare a nuotare, portare l'acqua, l'elettricità nelle case, e, soprattutto, fondare una scuola. Un processo di liberazione e di aderenza totale ai bisogni e alle risorse del territorio. Nascono da questa riflessione le parole che identificano il nostro lavoro: Pedagogia dell'Aderenza e del Riconoscimento. Abbiamo notato, nei nostri laboratori di scrittura, che la parola, se nominata, diventa intenzionale, può muovere anche la pietra, con la quale costruire strade, oppure può edificare barriere. Quindi, la parola, se rincorsa nel suo etimo e posizionata sulla linea del tempo, narra sempre storie. Come il seme, germoglia e poi fruttifica.

Sul piano statistico gli analfabeti del secolo scorso sono spariti, ma nella realtà, alla data del 2010, il 72% degli italiani non intendeva un testo mediamente complesso. Le parole in uso nel vocabolario attivo di uno studente ginnasiale del 1967 erano 1600, nel 1996 risultavano essersi ridotte a 600, come risulta dalla ricerca svolta da Tullio De Mauro sull'analfabetismo di ritorno. Oggi la situazione è più allarmante, pare che l'uso delle parole si sia abbassato, lo confermerebbe l'ISTAT: 13% sono i laureati, 35,6% i diplomati, 29,5% i licenziati della Scuola Media, il 16% degli alunni si ferma alla scuola elementare, 5,5 gli analfabeti e solo lo 0,4% possiede un più alto livello di studio rispetto agli standard internazionali: i famosi Pierini.

Quindi, la seconda domanda è stata questa: “Basta l'istruzione per risolvere i problemi del povero?”

L'inarrestabile processo di robotizzazione in mano a una piccola oligarchia nel mondo confermerebbe quanto enunciato nella lettera a una professoressa: “Spesso ci è venuto di parlare del padrone che vi manovra. Di qualcuno che ha tagliato la scuola su misura vostra. Esiste? Sarà un gruppetto di uomini intorno a un tavolo con in mano le fila di tutto: banche, industrie, partiti, stampa, mode? Noi non lo sappiamo. Sentiamo che a dirlo il nostro scritto prende un che di romanzesco. A non lo dire bisogna far gli ingenui. È come sostenere che tante rotelle si sono messe insieme per caso. Ne è venuto fuori un carro armato che fa la guerra da sé senza manovratore”.

Il nostro Maestro ci insegnava che, in realtà, il nemico da combattere era dentro di noi. Si annidava nel mondo abitudinario dentro il quale leggevamo la realtà. Questo impediva di vedere le intenzionalità di chi comanda dietro le quinte, dominando la massa. Per uscire da tali assuefazioni dovevamo combattere le mode, ossia quel consumismo sfrenato, imposto e manipolato dai potenti. Un processo rovinoso che ci omologava, che sta, oggi, distruggendo il pianeta e il ciclo vitale delle stagioni. Così i poteri forti continuano a truffare il “povero” e lo costringono ad alleanze che agiscono contro il suo interesse. Il 20% della popolazione mondiale detiene il 75% delle ricchezze. L'incapacità di critica ha determinato di fatto la rinuncia ad ogni forma di egualitarismo. Inoltre: “Questa società - ci diceva il Priore - creerà bisogni all'infinito e distruggerà lentamente l'anima dell'uomo”. Compito del sacerdote è quello di rimuovere gli ostacoli che si sovrappongono tra la Parola e il popolo. Senza il dominio sulla parola è impossibile percepire lo Spirito dei Tempi, attivare, come sosteniamo nell'autodifesa, la criticità: “la scuola sta tra il passato e il futuro e deve tenerli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre il ragazzo su un filo di rasoio”: da una parte deve consolidare il rispetto della legge, ma nello stesso tempo suscitare il desiderio di leggi migliori.

Già a San Donato, Lorenzo si era reso conto dei motivi per cui il popolo viveva la religione come un compimento di riti abitudinari, dentro un contesto che non consentiva, in quanto gerarchico, di afferrarne i significati. È pur vero che, essendo prete, viveva nel presupposto che da un certo punto in poi subentri la Grazia. Uno Stato nel quale il cristiano si pone, per calarsi in una realtà, che è anche dell'altro, capace di far percepire l'assenza delle cose e stimolarne il desiderio, il quale ha un presupposto certo: la laicità. E quello che ci emoziona del Priore di Barbiana è il suo essere maestro laico (“la mia scuola la dedico a Socrate e non al Sacro Cuore”) e nello stesso tempo uomo di Fede. Per lui, la fede, e lo dice in due lettere a monsignor Bartoletti, è un dono che non si compra al mercato, che non si acquisisce nei luoghi del privilegio, ma nei sentieri tortuosi della vita. Lui lo ricevette durante le leggi razziali, quando si sentì perseguitato a morte in quanto la madre era ebrea di nascita. Un periodo che si caratterizza in una forte crisi esistenziale, segnata dalle lettere in cui, vivendo l'esperienza pittorica, si firma: “Lorenzino dio tuo”. In queste fasi della vita “è normale, dovendo crescere dentro una scala di valori - ci diceva – trasgredire la norma, peccare per scoprire cosa cova dietro il bisogno effimero”, quello che abbiamo ereditato, e il bisogno reale, quello che si lega al desiderio o alla vocazione. Proprio questa sua capacità di catechizzare, ponendo il ragazzo “tra” lo stato di Grazia e la fede, tra i luoghi dell'apprendimento e il il Sapere, fa emergere che scopo principale del maestro e del prete è quello di turbare l'animo. Fece tutto ciò attraverso una seria ricerca conoscitiva, che chiamerà: “esperienze pastorali”.

In poche parole, poneva l'alunno in uno stato intenzionale, dentro una logica di senso, quella che ci libera dall'eseguire meccanico, ci fa pensare e ci conduce alla presa di coscienza. A San Donato toglierà addirittura il crocifisso, azione che non si ripeterà a Barbiana, perché l'educatore laico non toglie, ma aggiunge i simboli degli altri. Si può peccare per sperimentare, verificare, prendere decisioni, ma mai per coazione a ripetere. Il culmine di questo suo modo di essere lo raggiunge riconoscendo quelli che definirà “i santi laici”: Socrate, Gandhi e Gramsci. E lo farà pescando nei fondali della nostra intera esistenza, arricchendo il linguaggio dei poveri per ampliarne la capacità di espressione: le parole di coloro che la sera, dopo 12 ore di lavoro, frequentavano la sua Scuola Popolare. Infatti, la sua ricerca coinvolse l'intero popolo, che, malgrado le chiusure mentali, apriva le case ai propri figli, trasformati dal cappellano di San Donato da chierichetti in ricercatori, da passivi esecutori di riti in attivi difensori dei valori evangelici. Erano loro gli occhi e le orecchie. Erano loro a contare i letti nelle case, a constatare chi aveva l'acqua, l'elettricità o il lume a carburo, chi pagava l'affitto e chi era proprietario. Scoprivano le cose più impensate, dalle malattie o disabilità nascoste per vergogna fino al carcere e all'emarginazione più totale.

I ragazzi non erano elaboratori di dati per costruire uniformità, valorizzando, come spesso fanno i mezzi di comunicazione, solo la media, quella livella indicante una falsa parità, secondo la quale mangiamo una pagnotta a testa anche se c'è chi non mangia e chi mangia troppo. Il Cappellano di San Donato indirizzava l'attenzione verso un'altra parola: la Moda, quel fenomeno sociale, utilizzato dai detentori del potere per spingere a conformarsi a modelli precostituiti. Uscendo dalle logiche del solo consumo e profitto, insegnava che tale parola assumeva il significato di linea di tendenza, facendo capire l'importanza di non essere omologati. Media e moda erano elementi attivi di un metodo il cui compito era quello di scuotere le coscienze. Il Maestro non era un semplice supervisore, che comandava a bacchetta, ma colui che con autorevolezza cercava e, insieme agli allievi, individuava la realtà occultata. E ciò avveniva durante la benedizione pasquale, andando di casa in casa, senza alcun atteggiamento di sapere a priori. Un modo di essere e di fare che sta alla base del metodo di insegnamento attuato dal Priore a Barbiana e che trova il suo fulcro nella “Scrittura Collettiva”. Questa pratica umile, iniziata dal cappellano di San Donato nel lontano 1947 durante le lezioni di religione nelle scuole di Calenzano, ebbe come risultato un catechismo “storico”, scritto dagli alunni delle elementari, ma in realtà nient'altro che un collage delle frasi più azzeccate, estratte dagli scritti dei bambini. Qualcosa di più di quello che faceva il Freinet nel suo giornalino di classe e qualcosa di simile a quello che farà 25 anni dopo a Vho Mario Lodi, il quale era venuto in contatto nel '63 con il nostro Priore (Il Cipì è del 1972). Trovo imprecise e presuntuose le affermazioni di Lorenzoni, quando mette i due educatori in competizione, dimostrando non solo di non conoscere la nostra esperienza, ma di non avere letto neppure i libri di Mario. Infatti quando Mario Lodi è nominato maestro di ruolo a San Giovanni in Croce è il 1948, la data parla da sola, e lui stesso dice che i primi anni sono stati conflittuali, perché non era affatto convinto che quella fosse la sua strada.

È stato rileggendo insieme la prima grande scrittura collettiva del '65, l'autodifesa in tribunale, visibile nel nostro sito web, che abbiamo compreso il vero significato dell'arte umile della scrittura collettiva. Tale espressione, apparsa per la prima volta nella storia della pedagogia e della didattica in “Lettera a una professoressa”, è diventata nei nostri laboratori l'elemento di sintesi del processo educativo. Pur trovando riferimenti nel mutuo insegnamento e nell'apprendimento cooperativo, risalenti al XVIII secolo, la nostra scrittura collettiva si evolve e rende più palesi le intuizioni del Maestro, le quali seguono procedure ben precise, ma sempre suscettibili di cambiamento. Grazie al contributo di quelle insegnanti e di quei genitori che sono interpreti e portatori delle istanze del territorio abbiamo cominciato a sistematizzarla.

“È una palestra di democrazia”, così l'hanno definita le insegnanti di Sorisole, ed è vero. “È uno spazio-tempo dove la Grammatica e l'Analisi Logica fungono da bussola, ci hanno suggerito i ragazzi delle vallate bergamasche. Nel nostro reinterpretare Barbiana, abbiamo capito che la scrittura collettiva, essendo anche ricerca azione a tutto campo, parte dal motivo occasionale, la motivazione, e conduce l'allievo al motivo profondo, l'obiettivo curricolare. Nel nostro linguaggio più recente il motivo occasionale diventa atteso imprevisto, nel senso che il buon educatore parte dalla cultura informale dell'allievo, ossia chiede all'allievo ciò che conosce, per costruire con lui schemi logici e non semplici nozioni.

In un primo tempo, avevamo deciso di incontrarci per festeggiare, per rinsaldare a Barbiana il nostro rapporto. Ciò non è avvenuto in sordina, grazie alla sensibilità delle istituzioni locali, e perché, per “contaminazione”, siamo ormai in tanti. Contaminazione, altra parola rimbalzata nel nostro vocabolario, vuol significare che non abbiamo inventato un modello rigido, ma un contenitore dinamico, aperto alle tante esperienze di tutto il corpo docente, rispettando le peculiarità del proprio territorio, i tempi e le diversità di attuazione nei singoli contesti. Perché autonomia significa accettare l'altro per trovare la propria identità, riconoscerla in quei valori universali dell'uomo, capaci di alimentare la gentilezza, lo suggeriscono i bambini della scuola primaria, di rimuovere il conflitto e creare la scuola di tutti e di ciascuno.

Libertà d'insegnamento non significa solo rivendicazione di diritti sindacali che possono diventare una trappola di standardizzazione della scuola. Libertà di insegnamento significa avere il diritto d'inventare e sperimentare nuove competenze sul campo, funzionali ai bisogni degli alunni e non a quelli dell'apparato. È proprio invocando offerte formative differenziate, e solo in seguito verificate, che noi difendiamo la libertà d'insegnamento. Una espressione che ripeschiamo dal fondale, perché svilita nel suo significato non più vocazionale, e quasi dimenticata. Questa parola ci conduce a reinterpretare e, in sintesi, il nostro lavoro non è altro che voler riadattare all'attuale contesto la didattica attiva dei bravi maestri. La buona pratica ha come presupposto un insegnante che prenda in mano la propria vita, che non deleghi solo ad esperti esterni il proprio operare e, ancor di più, che sia coerente, perché il suo agire deve avere come presupposto l'“aderenza tra la parola e il pensiero”.