Lettera di don Lorenzo Milani e don Bruno Borghi
a tutti i sacerdoti della Diocesi Fiorentina

1 ottobre 1964


 

Caro confratello,
abbiamo sentito da più parti un coro di rammarico alla notizia che monsignor Bonanni non è più rettore.
L'argomento non può non interessarci: il Seminario è un fatto di tutti noi, non un fatto privato del Vescovo. E non solo di noi sacerdoti, è anche un fatto di tutto il popolo cristiano che chiamiamo a contribuire al mantenimento dei seminaristi, che dovrà domani accettarli come padri e maestri, che porterà le conseguenze di un migliore o peggiore sistema educativo in Seminario.
Probabilmente tutti i sacerdoti fiorentini in questi giorni hanno parlato del problema del rettore con qualche confratello. Molti avranno sentito il desiderio di parlarne anche col Vescovo e se poi non ne hanno trovato il modo, I'occasione o il coraggio, hanno sentito il disagio di aver parlato alle spalle di un assente e d'aver taciuto con lui. Siamo stati abituati a considerare il silenzio in casi simili come un segno di rispettosa sottomissione all'autorità. Ma sotto sotto sappiamo che è più comodo tacere che parlare e forse il silenzio non è che un sistema per scaricare sul Vescovo il barile della nostra responsabilità.
L'episodio Bonanni non è che uno fra tanti. Forse quello che ha colpito un maggior numero di sacerdoti. Un altro, sicuramente più grave, è quello del padre Balducci: l'Acivescovo ha posto i cattolici fiorentini nella condizione di doversi regolare con la sola coscienza in materia di teologia come se fossero protestanti. Non ha risposto alle loro precise domande scritte, mentre i due giornali fiorentini sostenevano due oppostissime opinioni teologiche e due giudici laici si permettevano di sentenziare in materia di dottrina cattolica e perfino di mettere in dubbio la buona fede di un sacerdote e di un maestro di ineccepibile dottrina e rettitudine quale padre Balducci. Che si sappia noi due, in quell'occasione, scrissero all'Arcivescovo i parroci d'un solo vicariato.
Un terzo episodio, quello che all'annuncio ci aveva dato la speranza di un primo tentativo di dialogo tra l'Arcivescovo e noi, cioè la riunione preconciliare, si risolse in un monologo e non ci fu data la possibilità di parlare. Purtroppo anche quella volta non abbiamo reagito.
Ma questi non sono che tre episodí di un problema molto più generale: il problema del dialogo. Il Papa ha chiamato i Vescovi a dialogo, perché il Vescovo chiamasse a dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il loro scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l'esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo al Vescovo e il Vescovo non parla a noi! Il 90% dei Vescovi e due Papi hanno scelto la via dell'apertura e del dialogo. E’ l'ora di svegliarsi e d'accorgersi che la Chiesa fiorentina col suo muro tra Vescovi e preti è ormai al margine della Chiesa cattolica. Ma è anche al margine del mondo d'oggi. Quel mondo d'oggi cui Giovanni XXIII guardava con tanta affettuosa stima in cerca delle verità che Dio vi ha certamente nascoste, perché anche noi le trovassimo e le facessimo nostre. Quel mondo ci guarda con giusto disprezzo e si allontana sempre più da noi e dalle tante verità che a nostra volta potremmo offrirgli.
Per esempio un episodio come quello Bonanni in cui un rettore dopo sei anni di servizio viene sostituito per motivi che non sono stati comunicati, urta la sensibilità del mondo d'oggi di cui facciamo parte e che è ormai abituato a non accettare provvedimenti non motivati. Perché un importante provvedimento che non sia stato pubblicamente motivato è infamante per chi ne è l'oggetto. Offende poi la dignità di quanti sono direttamente o indirettamente interessati al problema. Li tratta come animali inferiori cui non si deve spiegazione e da cui non s'accetta consiglio. Dare, togliere, accettare e tenere le cariche come se le cariche fossero solo onori alla persona, problemi di carriera e non luoghi di servizio per i quali non si può pensare di servire senza una specifica competenza! I laici d'oggi restano a bocca aperta di fronte a questo settecentesco modo di concepire l'autorità. La possibilità di ricorrere contro le decisioni dell'amministrazione è stata introdotta in Italia da quasi un secolo, la motivazione obbligatoria delle sentenze, il diritto di difesa ecc. appartengono ormai al patrimonio di tutta l'umanità civile. Possiamo rinunciarci noi sacerdoti per una esigenza di ascetica personale, ma i laici d'oggi, cristiani e non cristiani, non possono capire perché solo noi non vogliamo tendere l'orecchio ai " segni dei tempi ", adeguarci a esigenze così universalmente accettate.
Veniamo al pratico: Non scriviamo con l'intento di far recedere l'Arcivescovo dalla sua decisione sul Seminario. Quel che ci proponiamo è solo di creare una qualsiasi forma di dialogo tra noi e lui, un'usanza di parlargli, un nuovo stile di rapporto. Non è con i telegrammi d'auguri, il regalo di una croce pettorale e le genuflessioni che si mostra l'amore al Vescovo, ma piuttosto con la sincerità rispettosa, il rifiuto del pettegolezzo di sagrestia.
Perciò, prendendo spunto dal caso Bonanni, abbiamo pensato di proporre a tutti i sacerdoti fiorentini l'inizio in concreto del dialogo: chiediamo all'Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti. Chiediamogli di parlare anche con noi dei motivi della sostituzione del rettore. La nostra qualità di figli maggiorenni e di corresponsabili ce ne darebbe quasi un diritto. Ma non lo avanziamo. Lo chiediamo per piacere.

Può darsi benissimo che la tecnica del dialogo che abbiamo scelta sia sbagliata. Ce ne suggerisca lei una migliore per la prossima volta. Ma non rinunciamo per un puntiglio formale all'idea di creare un nuovo rapporto finalmente filiale tra noi e il Vescovo. Se si pretende che l'iniziativa risponda perfettamente ai gusti d'ognuno succederà che non se ne farà di nulla . Abbiamo preparato l'accluso cartoncino (nota). Come vede il testo che le proponiamo è volutamente contenuto nella forma più attenuata e rispettosa proprio per venir incontro al maggior numero di sacerdoti. Se le va bene, la preghiamo di firmarlo e di inviarlo all'indirizzo di don Borghi. Se preferisce un altro testo, un po' diverso oppure anche di opposto contenuto, lo invii egualmente, e don Borghi sarà ben lieto di consegnarlo personalmente all'Arcivescovo insieme agli altri.


Fraterni saluti
Bruno Borghi sac.
Lorenzo Milani sac.


Nota
Il cartoncino allegato diceva:

“Eccellenza, la notizia che mons. Bonanni ha lasciato il Seminario mi ha dolorosamente impressionato. Pur accettando con assoluta disciplina la sua decisione, le sarò filialmente grato se vorrà parlare anche con noi dei motivi che l'hanno indotta a questa decisione.
Vorrei anche che questo fosse il primo passo verso un dialogo tra Vostra Eccellenza e noi almeno sui problemi più gravi che via via si presenteranno nella nostra Diocesi”


firma






L’arcivescovo non si fa attendere e la settimana dopo invia la seguente circolare datata 11 ottobre 1964:

"all'Ecc.mo Vescovo Ausiliare, ai Camarlinghi del Capitolo Metropolitano, ai Rettori dei Seminari fiorentini, ai Vicari urbani e foranei, per conoscenza di tutti i sacerdoti dell'Arcidiocesi:
" Desidero, per loro tramite, far pervenire il mio paterno ringraziamento ai sacerdoti che, per iscritto o a voce, singolarmente o a gruppi, hanno voluto rinnovare al loro Arcivescovo la riverenza ed obbedienza promesse nel giorno della loro ordinazione. E’ motivo di conforto per me vedere rinsaldarsi nei miei preti la fede soprannaturale nei princìpi gerarchici sui quali, per volontà di Cristo, si regge la Chiesa.
"Quanto al "dialogo", penso che sia necessario ricercarne l'ispirazione anzitutto nel colloquio intenso e perenne con Dio, senza del quale i fermenti del tempo potrebbero inquinare o rendere meno genuino il nostro rapporto con la Chiesa e con gli uomini, e meditare la recente enciclica Ecclesiam suam del Santo Padre Paolo VI che con sereno equilibrio ed apostolica apertura ci reca l'autentica e sola direttiva della Chiesa in materia, manifestando così la volontà del Signore a nostro riguardo.
“Né possiamo dimenticare la lettera dell'Episcopato italiano ai sacerdoti del 25 marzo 1960, con particolare riferimento al n. 13, che tratta l'argomento "Il Laicismo e il Clero”.
Certe manifestazioni a tutti note, mentre attestano l'attualità di quel documento, non possono spiegarsi che con la penetrazione anche fra noi di princìpi e di atteggiamenti già ivi riprovati, e certo non conformi allo spirito sacerdotale.
"In Diocesi sono in atto da tempo iniziative utili e feconde; saranno proseguite, nello spirito di carità e di collaborazione fraterna fra sacerdoti che è alla base della vera "pastorale d'insieme". Il senso della Redenzione, fondamento del nostro sacerdozio, ci insegnerà a valorizzare in una luce soprannaturale anche le carenze, i difetti, le stesse eventuali delusioni che possono provenire dalla nostra comune umana limitatezza e dal difficile e pur fecondo processo di transizione che la Chiesa e il mondo oggi attraversano. Forse ciò richiederà a ciascuno di noi d'accogliere con fede più profonda la propria croce che rimane, anche nel mondo moderno, la più sicura e consolante certezza.
Per i due sacerdoti che in questi giorni, tanto avventatamente e nella forma più inopportuna, hanno dato a me, loro Vescovo, pubblico motivo di sofferenza ed alla Comunità diocesana ragione di frattura e di dissenso, chiedo al Signore che non venga meno la loro fede. Tengo a rilevare che essi potranno ottenere da me, in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze. Il Vescovo non porrà alcun ostacolo alle loro eventuali decisioni.
Tutti benedico, con cuore paterno.

Ermenegildo Florit, arc

 

 

Bruno Borghi, Adele Corradi, Padre Corzo e Enrico Zagli

Bruno Borghi e Adele Corradi a sinistra,
Padre José Luis Corzo Torale Enrico Zagli, detto "Faina"

Don Bruno, e la classe operaia va in paradiso
Articolo del 14 agosto 2006

di don Enzo Mazzi

A un mese dalla morte di Bruno Borghi, il primo prete operaio italiano, conviene riflettere su una esperienza che ha segnato il dopoguerra e che forse può avere ancora un significato propositivo. «…E’ venuto a trovarci don Borghi - raccontano i ragazzi di Barbiana e don Lorenzo Milani in Lettera a una professoressa - Ci ha fatto questa critica: "A voi pare importante che i ragazzi vadano a scuola … E’ una scuola migliore l’officina"». Questo era Bruno Borghi, il prete fiorentino ormai secolarizzato che ha segnato con le sue scelte di vita, forti al limite della provocazione, la stagione di Firenze «città sul monte», come la definiva La Pira nei primi decenni del dopoguerra, crocevia di una quantità di percorsi innovativi, crogiolo di fermenti ecclesiali, culturali e politici capaci di sconvolgere le ossificazioni di sistemi ideologici contrapposti, in guerra spietata fra loro ma alleati di fatto nell’impedire che le gabbie fossero infrante.

Fra le personalità emerse in quella stagione don Bruno Borghi è una delle meno conosciute. Per me è un valore. Lo conoscono più i carcerati di Sollicciano, dove nell’ultima parte della sua vita ha fatto il volontario, che i fiorentini. E don Bruno è nel cuore della gente della Comunità dell’Isolotto per la solidarietà e la costante vicinanza delle scelte di vita, pur nel rispetto delle tante diversità.

Il primo prete operaio italiano

Eppure don Borghi aprì una strada di notevole rilievo a livello nazionale che molti poi seguirono: fu il primo prete-operaio italiano. Oggi un prete che lavora alla catena di montaggio di una grande fabbrica non sconvolge più nulla. La classe operaia è in paradiso e nelle fabbriche si celebrano pontificali. Ma allora, negli anni della guerra fredda e della contrapposizione feroce fra cattolici e comunisti, la scelta della condizione operaia da parte di un prete creò sconcerto e scandalo. «I santi vanno all’inferno», celebre romanzo di Gilbert Cesbron, racconta l’esperienza esaltante e terribile dei preti-operai. Si trattò proprio di un tentativo di contaminazione inaudita fra paradiso e inferno. Tanto inaudita e sconvolgente che fu interrotta drasticamente e condannata dal Vaticano nel 1949, creando drammatici casi di coscienza e perfino suicidi, poco dopo che il Sant’Uffizio aveva rinnovato la scomunica contro i comunisti, condannando perfino i preti e i cattolici che con i loro comportamenti «favorivano» il comunismo.

Via le barriere

Il paradiso e l’inferno dovevano restare separati. Andava bene anche a gran parte della dirigenza comunista. La spartizione era nelle cose. La vita, però, ha risorse capaci di oltrepassare sempre gli orizzonti dati. L’esperienza dei preti operai fu feconda. Agli inizi degli anni sessanta avvenne una preziosa contaminazione. La classe operaia fu costretta a uscire dalla fabbrica per cercare alleanze contro l’affacciarsi della crisi industriale che insidiava l’occupazione. I soggetti delle lotte per i servizi negli insediamenti abitativi avevano raggiunto, a loro volta, una maturità che li portava alle radici, alle cause profonde della invivibilità delle periferie abitative. Sentivano forte l’esigenza di superare la cultura della separatezza. Cercavano in una unità più grande e in un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal basso tutta la società, lo sbocco del loro impegno di animazione e unificazione del territorio.

Un prete sessantottino

Si giunse così al processo di progressiva e feconda integrazione tra fabbrica e territorio, fra lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, fra cultura operaia e cultura dei settori della società più legati al territorio come le donne, gli studenti, i preti e i cristiani che gravitavano intorno all’ambiente parrocchiale. E siamo alla stagione del ‘68-’69. Oggi quelle esperienze possono risultare preziose di fronte alle sfide poste alle giovani generazioni dalla globalizzazione. Nuove forme di contrapposizione fra altri paradisi e altri inferni incombono. Occorre salvaguardare la memoria, nel venir meno delle persone che sono state protagoniste di quelle stesse feconde esperienze.

L’Archivio della Comunità dell’Isolotto, animato da don Sergio Gomiti, un altro dei protagonisti di quella stagione, ha già una sezione dedicata al tema. L’università e il sindacato hanno una responsabilità. La scomparsa di Bruno Borghi può essere l’occasione per intrecciare più proficue collaborazioni.


 

 


Foto 1965 - gruppo classe
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