Cambiare la scuola si può
“Chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara”
Cosa porto con me di don Lorenzo Milani
Quando andai per la prima volta a Barbiana fu sulla scia di altri (mia sorella), di chi aveva studiato don Milani, di chi sapeva chi fosse, cos’era Barbiana e il significato dell’esperienza vissuta lì, ma io vidi soltanto il luogo, panoramico, di ampio respiro, ma cupo. Era autunno. La strada non era asfaltata e l’auto (la vecchia Cinquecento bianca che mio padre aveva passato a mia sorella) fece molta fatica ad arrivare fin lassù. Ricordo nitidamente che ad un certo punto, volendo andare avanti, tra quelle curve continue, estremamente pendenti e fangose, qualcuno dovette scendere per spingere l’auto affinché ripartisse da quel pantano in cui si era inesorabilmente affossata. E quel qualcuno, ero io, mentre mia sorella, nel tentativo di ripartire, sprofondava sempre più nel fango. Alla fine riuscimmo a liberarci! Di quel primo incontro con Barbiana ricordo soprattutto il disagio del viaggio. Ed era comunque in auto!
Per chi frequenta il Mugello e stringe rapporti col territorio circostante e con la scuola, è praticamente impossibile non conoscere don Milani, Barbiana ed il fascino della figura dell’educatore, del luogo, del processo formativo vissuto e costruito da ogni studente – anzi “ragazzo” - di Barbiana.
Quando ci sono tornata, molti anni dopo, ho trovato un percorso molto più agevole; l’auto, sulla strada che nel frattempo era stata asfaltata, non ha avuto difficoltà ad arrivare e, essendo primavera, l’impatto ambientale è stato completamente diverso. Sicuramente più significativo, perché a quel punto don Milani per me non era più soltanto un nome noto, ma era divenuto un modello a cui affidarsi e Barbiana rappresentava una storia, che mi appassionava e coinvolgeva. Inoltre, lavorando come insegnante nella scuola primaria, con particolare attenzione alle minoranze e alle diversità, a partire dalle situazioni di handicap e svantaggio, don Milani è stato ed è per me un riferimento sempre presente, sia per il ruolo che ha avuto nel voler emancipare le classi più disagiate – e quindi le persone, i bambini, i ragazzi -, sia nel suo ruolo non di «educatore» ma di «educatore di coloro che la scuola respingeva» e a cui lui rendeva inizialmente una speranza, ma poi molto di più: una prospettiva di vita ed una capacità di pensiero, che contraddistingue in modo palese coloro che sono cresciuti con l’insegnamento di don Milani. Una tenacia inconfondibile caratterizza ancora i ragazzi di Barbiana, che ormai proprio ragazzini non sono più!
Senza entrare qui nel merito delle critiche, di vario genere, mosse al priore circa il suo carattere, le metodologie che adottava, il rapporto col sesso femminile, con l’istituzione Chiesa, con i Vangeli, con la scuola, senza quindi prendere posizioni condivisibili o contraddicibili, comunque sia, rimane come punto fermo che don Milani lascia un insegnamento enorme che si colloca all’interno di quella che molti autori definiscono pedagogia dell’emancipazione.
Quando ho frequentato il primo anno di Università, seguendo un corso di studi annuale (e allora annuale significava da ottobre a maggio e non annualità compatte come esistono oggi) ricordo che con piacere ripresi tra le mani Lettera a una professoressa. Il Prof. (Andrea Pizzitola di Bologna) fu di una chiarezza estrema nel pretendere da noi studenti che tutto quello che stavamo studiando di Storia della scuola e delle istituzioni educative (questa era la materia che lui insegnava) avremmo dovuto saperlo contestualizzare. E nel suo corso, da novembre a giugno, ci parlò ampiamente anche di don Milani e della Lettera, di educazione e di politica. I miei approfondimenti sul tema non avvennero solo per necessità, ma furono animati da uno spiccato interesse sia per la materia che per il programma scelto dal Prof. Andai all’esame carica di libri e di pensieri e fu un immenso piacere. Per me, che nelle prove d’esame mi emozionavo in modo esagerato tanto da non saperle vivere quasi mai con quella serenità che consente una discussione aperta e un dialogo partecipato, quella volta l’esame fu particolarmente coinvolgente e costruttivo. La soddisfazione finale enorme.
Forse l’essere territorialmente vicina alla realtà di Barbiana mi avvicinava a questa figura… forse le richieste perentorie del Prof. avevano avuto implicitamente l’effetto intimidatorio che si era tradotto in studio… forse, ma forse – e questo è il forse che più si avvicina al vero - il mio infinito interesse era per il senso di solidarietà che sentivo verso quei ragazzi di Barbiana; neppure io abitavo in città e nell’impatto iniziale con le scuole superiori avevo incontrato qualche difficoltà perché tutto era improvvisamente molto diverso rispetto alla scuola precedente e all’ambiente di provenienza (scuola elementare in montagna a Castagno d’Andrea, scuola media a San Godenzo 7 km più a valle, con esame a Dicomano, per me già un “paesone”, ma in confronto alla città era sempre “campagna”).
Quella Professoressa a cui i ragazzi si riferiscono ad inizio Lettera, mi faceva tanto ricordare una “mia” professoressa dell’Istituto Magistrale e per anni sono stata convinta che fosse lei. Della professoressa della Lettera, aveva la stessa protervia, stessa arroganza, stessa antipatia verso gli studenti che col treno arrivavano “da fuori” rispetto alla simpatia per tutti gli altri, di Firenze. Ancora oggi, quando apro Lettera ad una professoressa ed inizio la lettura, penso a “quella” professoressa che, come entrava in classe sottolineava, quasi quotidianamente, che nella scuola la chiamavano “la Tremendissima” e “che questo ci desse l’idea di come avremmo dovuto comportarci”. Praticamente a fatica respiravamo, quando c’era lei. Solo gli ultimi mesi, cominciò ad accettare quelli che ancora “resistevano” nonostante tutto e soprattutto nonostante lei, quelli che non le avevano permesso di “respingerli” nella campagna (o montagna) da cui provenivano.
Sicuramente la professoressa della Lettera era uno stereotipo così consueto che poteva essere proprio lei, come molte altre professoresse. Sicuramente quella stessa professoressa ha contribuito a farmi amare così fortemente il libro dei ragazzi di Barbiana, perché potevo sentirne mie alcune parti e sentirmi comunque coinvolta nella lettura del libro. Sicuramente quella professoressa mi ha insegnato che non sarei voluta diventare come lei ma che avrei voluto, insegnando, costruire dinamiche relazionali diverse e rispettose.
Con lo scorrere del tempo di don Milani si è parlato in più modi e, a fianco della sua efficacia formativa, emergeva quel suo carattere rude ed “arrabbiato” che contraddistingueva la sua personalità. Ma qual è l’attualità del pensiero di don Milani?
Nel leggere saggi, articoli, libri, scritti sulla figura di don Lorenzo Milani e intorno alla sua opera educativa e formativa, diventa sempre più evidente come e quanto l’infanzia che Lorenzo ha vissuto e la famiglia che ha avuto abbiano svolto un ruolo determinante per lo sviluppo del suo pensiero, che non è stato “conformato” a degli stereotipi, ma che è stato “educato” all’apertura mentale. Un’apertura che non ha portato il giovane Lorenzo verso lo studio per entrare a far parte del mondo accademico, come potevano aspettarsi i suoi familiari dal momento che così accadeva da generazioni, ma un’apertura che poi era divenuta attenta ai bisogni dei più deboli e alla solidarietà. In questo si riscontrano analogie col fratello Adriano Milani Comparetti che, divenuto medico, non pensava ad esercitare la professione per arricchirsi, ma suo desiderio principale era quello di aiutare la scienza con nuove scoperte ed aiutare i più deboli fisicamente e mentalmente ad avere una vita migliore, anzi ad avere una vita con la dignità di persone e non puramente un’assistenza fisica (come se mente e cuore fossero compromesse irrimediabilmente e inficiate totalmente). Certo che l’impronta atavica della bisnonna Elena Raffalovich forse è stata fondamentale per tramandare ai fratelli Milani un pensiero attivo, attento all’operatività, al fare, al costruire, attento alla sensorialità e all’emotività, attento ai deficit e agli svantaggi, attento alla dimensione sociale e alla motivazione e questi sono aspetti che incontriamo sia parlando di Lorenzo che del fratello Adriano, aspetti assolutamente inediti e innovativi per l’epoca in cui si collocano, un’epoca in cui gerarchie e razionalità avevano il primato assoluto su inclusione e emozionalità-sensorialità.
Nella famiglia Milani i ragazzi erano abituati fin da piccoli a usare il proprio cervello e a esprimere senza reticenze il proprio pensiero.
Questo è ciò che la scuola ha il dovere di recuperare e promuovere, ancora oggi, anzi, oggi più che mai: sviluppare la capacità di pensiero di ogni bambino accogliendo tutti ed ognuno: a Barbiana ogni ragazzo si sentiva importante come fosse il primo della classe, anche se aveva difficoltà a capire e gli insegnamenti dovevano essergli ripetuti più volte, cioè finché non avesse capito.
Ogni bambino/ragazzo/persona ha il diritto di essere accolto ma ancor più di sentirsi accolto. Il passaggio è delicato, quasi impercettibile, ma fondamentale. Il confine tra l’essere accolti e sentirsi accolti è labile: linguisticamente le due forme appaiono molto vicine (talmente vicine da sembrare sinonime) ma di fatto la distanza potrebbe essere abissale. Ed è lì che la scuola dovrebbe focalizzare il suo intervento formativo. È quello lo spazio dell’incontro, dell’accoglienza, dell’incoraggiamento, del rispetto. Ogni bambino oggi viene accolto a scuola, ma quanti si sentono accolti davvero? In un momento come quello attuale, cioè drammatico, della scuola italiana, diventa necessario sollecitare ogni insegnante a ripensare il proprio modo di essere insegnante e di fare insegnamento per recuperare valori fondanti la democrazia e la dignità umana, per costruire percorsi significativi e dotati di senso (e ognuna di queste parole meriterebbe un approfondimento, per non scivolare via come termine astratto, ma per essere recuperata nel suo valore e significato più intrinseco ed esistenziale).
Fermiamoci a pensare. Cosa ricordiamo della nostra scuola? Le grandi gioie e i grandi dolori, molto probabilmente. E dei maestri e/o prof?
Porto con me alcune incertezze, passatemi alla scuola elementare e che ancora sono incertezze. Porto con me alcuni giudizi negativi, trasmessimi nella scuola superiore e che sono diventate sfide per la mia vita (il prof. del 4° anno disse a mia madre: “Sua figlia la filosofia non la saprà mai” e cancellò così tutto il percorso precedentemente fatto in questa disciplina con voti altissimi e grandi soddisfazioni per me). Però, per fortuna, porto con me la voglia di fare la maestra nata grazie alle continue gratificazioni di quelle maestre che sono nel mio cuore con affetto e stima e con la gioia di averle incontrate. Nella scuola di montagna da cui provengo ne ho cambiate tante! Tante maestre e prof mi hanno accompagnata e ad ognuna associo tanti ricordi: belli e brutti. Loro mi hanno fatto capire che maestra avrei voluto essere e come non avrei mai voluto essere.
Non ho mai smesso di studiare!
Ancora oggi il mio impegno è per diffondere, ai futuri insegnanti nelle aule universitarie, agli insegnanti in servizio nelle occasioni di aggiornamento, nelle diversificate occasioni d’incontro e dialogo, una sollecitazione a fare attenzione alle relazioni, all’accoglienza, al rispetto, dove però questi termini non rimangano astratti, ma siano vissuti , respirati, agiti.
Allora sì che l’opera di don Milani continuerà, nel senso che la scuola dà alla formazione, nel come la scuola fa formazione.
La scuola dovrebbe-deve recuperare questa sua finalità formativa che troppo spesso si perde tra i contenuti appresi ma senza capacità critica. Il lavoro di gruppo ed il laboratorio sono modalità e strumenti per potenziare lo sviluppo cognitivo, emozionale, relazionale, sociale. Concludo, con una citazione di don Milani, impossibile, non farlo:
I filosofi studiati sul manuale diventan tutti odiosi. Sono troppi e hanno detto troppe cose. Il nostro professore non s’è mai schierato. Non s’è capito se gli vanno bene tutti o se non glie ne importa di nessuno. Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremo di scuola convinti che la filosofia può riempire una vita.
La pedagogia così com’è la leverei. Ma non ne son sicuro. Forse se ne faceste di più si scoprirebbe che ha qualcosa da dirci. Poi forse si scoprirà che ha da dirci una cosa sola. Che i ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie. Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta che dicesse questo e il resto si potrebbe buttar via. A Barbiana non passava giorno che non s’entrasse in problemi pedagogici. Ma non con questo nome. Per noi avevano sempre il nome preciso di un ragazzo(1).
In questo pensiero, scritto oltre quarant’anni fa, si possono rintracciare rimandi a tematiche ampie, come pure se ne può cogliere il carattere sintetico e complesso. Ecco l’attualità del pensiero di don Lorenzo Milani.
1. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967, p. 119.