CITTA'
STUDI - ASSOCIAZIONE SCUOLA APERTA - COMUNE DI BIELLA - COMUNE DI
COSSATO - COMUNE DI MONGRANDO - COMUNE DI VIVERONE - CENTRO SERVIZI
PER IL VOLONTARIATO
Sabato
11 Ottobre ore 9.00-13,00 - CONVEGNO - Città
Studi Biella
“La
scuola contro la crisi: Da
don Milani alla BPL a Senza Zaino”
Edoardo
Martinelli: Nuclei fondanti la pedagogia di don Lorenzo Milani:
Dall'intonazione
all'aderenza.
Allievo
di don Lorenzo Milani alla Scuola di Barbiana nel periodo delle
grandi scritture collettive: ai giudici e alla professoressa.
Coordinatore Attività Formative e didattiche Centro Ricerca e
Formazione Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana. In
qualità di Educatore ed autore multimediale del Comune di Prato ha
lavorato nelle scuole del territorio con compiti di formazione degli
operatori e di produzione di software didattici a supporto del
disagio e delle disabilità di apprendimento. Tra le attività
significative: la costruzione di libri di testo in Apprendimento
Cooperativo.
Daniela
Pampaloni: “Senza zaino: per una scuola comunità. La
scuola che c'é.”
Dirigente
Scolastica dell'Istituto Comprensivo Mariti di Fauglia (Pisa), membro
del comitato promotore del Modello di scuola Senza zaino. Presidente
della fondazione "Idana Pescioli onlus" ha al proprio
attivo anni di ricerca didattica nella scuola di base in direzione
della costruzione di atteggiamenti e comportamenti in direzione
nonviolenta. Ha ricoperto per tanti anni il ruolo di amministratore
pubblico .
Mario
Piatti: "Come
l'educazione musicale può animare la scuola."
Docente
di Pedagogia musicale nei Conservatori di musica dal 1982 al 2009.
Dal 2007 al 2012 ha coordinato Musicascuola
– Laboratorio musicale di rete degli Istituti comprensivi di Pontedera. Dai primi anni ’80 ad oggi
ha collaborato con Istituzioni, Direzioni Didattiche, Enti Locali e
Associazioni per l’aggiornamento e la formazione degli insegnanti,
e ha tenuto relazioni e laboratori in occasione di convegni e
seminari sull’educazione musicale. E’ membro del Comitato
scientifico del Centro
Studi Musicali e Sociali “M. Di Benedetto” di Lecco e direttore della rivista on line www.musicheria.net
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SEMINARIO CALABRESE SULLA PEDAGOGIA BARBIANESE
All'Istituto Comprensivo Statale, Cotronei e Rose, guidato dalla dirigente Teresa Mancini si è svolto un Seminario di studio e di lavoro sulle metodologie e sulle tecniche educative applicate a suo tempo nella Scuola di Barbiana. Ricordando don Lorenzo Milani, gli allievi del Priore hanno sollecitato la Scuola a mantenere alta l'attenzione sul contesto di realtà che vivono i giovani di oggi. Un intervento appassionato dell'ispettore Fusca ha esaltato la necessità di un tempo più rallentato che consenta ai ragazzi di essere compartecipi all'arte,alla musica ed alla poesia. Una sollecitazione che ha avuto pronta risposta dagli stessi alunni che, con le loro letture ed interventi musicali, hanno trasformato in Laboratorio di didattica attiva le due giornate.
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DON LORENZO MILANI E IL PAESAGGIO
"Salviamo i bambini dalla prigione delle nostre aule" cita il convegno promosso dalla rivista "Infanzia" svoltosi recentemente a Bologna: dobbiamo far uscire i nostri ragazzini dalle classi, abbattere le mura dei nostri istituti. C’è un’urgenza: dobbiamo tornare a farli correre, saltare, giocare, in mezzo a un campo, nei giardini delle nostre scuole. Far loro respirare l’aria. Portarli a vedere un fiume o educarli a girare una città prendendo la metropolitana o il treno. Abbiamo bisogno di tornare a sporcarci le mani, a usarle per digitare sulla tastiera del tablet e per toccare la terra, le foglie, gli alberi, le lumache.
Don Lorenzo Milani, profeta del nostro tempo, già sessant’anni fa, faceva lezione sotto un albero e aveva accanto alla canonica una piscina per i ragazzi. Le immagini della scuola di Barbiana fotografano don Milani che passeggia tra i boschi con i bambini; ragazzi impegnati a costruire una libreria, intenti a dipingere sul sagrato della canonica.
E' proprio dall'osservazione della natura e del paesaggio che si può partire per "fare scuola e ricucire le materie" poichè Il concetto stesso di paesaggio ( un sistema di relazioni tra fattori naturali e umani) ben si presta come base per una didattica fondata sull'interdisciplinarietà. Sono presenti molti comuni denominatori tra i contenuti della Convenzione Europea del paesaggio e la didattica milaniana, in particolare proviamo a riassumerne alcuni:
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Il paesaggio è un BENE COMUNE come l'aria e l'acqua perchè rappresenta un patrimonio di cultura e di memoria collettiva a disposizione di tutti: anche la Costituzione italiana, nell'articolo 9 recita: "Lo Stato tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione."
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Per il suo governo richiede un processo di partecipazione da parte degli abitanti come indicato dalla Convenzione Europea del Paesaggio, secondo il principio della cittadinanza attiva.
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Bisogna prendersi cura del paesaggio poichè le sue trasformazioni devono convergere verso un miglioramento della sua qualità. Ogni cittadino infatti ha il diritto di vivere in un paesaggio che lo rappresenti e nel quale si possa identificare.
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Tutto è paesaggio; esso è un libro aperto da esplorare e da cui prendere spunto per affrontare qualunque materia scolastica, ricercarne la verità, andando fino alle radici della conoscenza
Da alcuni mesi, nell’ambito del progetto “PAESAGGIO CONDIVISO” (programma INTERREG Italia-Svizzera), si sta svolgendo un laboratorio didattico sperimentale presso l’Istituto Comprensivo di Mongrando, fondato sui principi della Convenzione Europea del Paesaggio (CEP); esso coinvolge tre classi della scuola primaria di Zubiena (3°, 4° e 5°) e due della secondaria di primo grado di Mongrando (2° A e B) le quali hanno svolto alcune uscite di esplorazione del territorio del comune di Magnano (Ente capofila del progetto), per descrivere le percezioni dei bambini e dei ragazzi relativamente alla dimensione antropologica del paesaggio (nucleo urbano, monumenti, storia, ecc) e di quella naturalistica (boschi, campagna, morfologia, ecc.). La raccolta delle percezioni e delle informazioni sul paesaggio esplorato, serviranno alla costruzione di una mappa di comunità di classe che verrà presentata all’assemblea del paesaggio di Magnano, spazio istituito nell’ambito del progetto “PAESAGGIO CONDIVISO” per accogliere le attività di partecipazione indicate dalla CEP. Il principale obiettivo che il progetto si propone di raggiungere è una maggiore consapevolezza, da parte delle comunità locali coinvolte, che il paesaggio è il più importante bene comune. È dunque necessario che ciascun cittadino partecipi alla valorizzazione e pianificazione futura del proprio paesaggio, a partire dai più giovani. Lo strumento cardine del progetto è rappresentato dalle assemblee pubbliche del Paesaggio, di cui fanno parte gli abitanti, i docenti, gli allievi e le famiglie di quest’ ultimi che hanno aderito al progetto scolastico.
PEDAGOGIA DELL'ADERENZA
Intervento di Edoardo e di Gianmaria
SEMI DI SERRA e SCUOLA APERTA
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A.S.A. ASSOCIAZIONE SCUOLA APERTA
CENTRO RICERCA E FORMAZIONE DON LORENZO
MILANI E SCUOLA DI BARBIANA - VICCHIO
scuolaperta@gmail.com
info@barbiana.it
3474835167
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Troppo spesso sentiamo dire che è necessario ridurre,
tagliare, adeguare.
Lo sentiamo in tutti i campi, ma
in particolare viene detto riguardo alla scuola.
Non è l’approccio che vorremmo. La scuola è il luogo della formazione
del cittadino e, quindi, il luogo dove concentrare risorse e capacità.
Servono risorse economiche; ovvero soldi per pagare
gli insegnanti, il personale, per eliminare il precariato. Ma anche
soldi per ristrutturare gli edifici, attuare politiche di risparmio
energetico, consentire l’uso dei locali scolastici alla comunità.
Gli investimenti devono essere anche di passione. Non è possibile
formare dei buoni cittadini trascinandosi stancamente un
giorno dopo l’altro. Abbassando lo sguardo rassegnati.
In questi anni nel nostro territorio biellese, come in molte altre
parti d’Italia, si sono moltiplicate le azioni di sostegno alla scuola.
Di fronte a una progressiva dismissione si stanno mobilitando
molte forze a fianco della scuola. Più gli studenti sono giovani e
più sono i loro genitori a farsi carico di questo sostegno.
Riteniamo importante valorizzare questa carica di passione
e indirizzarla a un potenziamento della scuola, e non a una
suo ulteriore svilimento.
Per questo abbiamo organizzato degli incontri con gli allievi di
Don Milani della scuola di Barbiana, per non fare della scuola
sempre più
“un ospedale che cura i sani e respinge i malati”
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LA MORTE LA REGALO' AI SUOI RAGAZZI
di Edoardo Martinelli
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La malattia, ormai grave, stava concludendo la parabola della sua breve vita, di uomo e di prete. Il Priore partì da Barbiana che era il 25 aprile, giorno della Liberazione. Prima girò tutta la casa, poi volle rivedere tutte le stanze e, presente la Gina e noi ragazzi, disse: “Chissà se ci ritornerò ”. Il giorno avanti aveva bruciato molti documenti nella stufa.
Fino ad allora, Don Lorenzo si era mosso da Barbiana solo per controlli specialistici o trattamenti ospedalieri. Uno di questi brevi viaggi, in cui mi aveva portato con sé a Firenze, è per me indimenticabile. Durante il percorso in macchina attraverso il Mugello, a finestrino aperto, mi aveva dato alcune istruzioni e spiegato la mappa della città. Lasciatomi in San Marco a visitare le celle affrescate dal Beato Angelico, andò a fare la terapia, da lui definita "bombardamento ai raggi x". Ci saremmo trovati più tardi in casa della signora Alice Milani, la mamma, per mangiare. La madre accoglieva noi ragazzi come ospiti di tutto riguardo ed eravamo serviti a tavola né più né meno degli altri. Non ricordo per quale meccanismo, conscio o inconscio, feci quella bizza così decisa. Presi il mio piatto e andai a mangiare con la "serva" in cucina, lasciando tutti nel più completo imbarazzo. Più tardi Michele mi raccontò che il priore allargando le braccia disse alla madre: “ Cosa vuoi, a me i figlioli mi vengono così!”.
Il rapporto tra don Lorenzo e la madre era singolare. Il fratello Adriano, confiderà di non aver ricevuto baci o abbracci. Il priore era molto tenero e la madre contraccambiava tale tenerezza fino ad abbracciare anche noi. La malattia aveva saldato insieme il nucleo familiare e la gente di Barbiana. A noi parve normale la decisione di tornare a Firenze, in via Masaccio. Sì, volle morire a casa dalla madre: “ Come poteva mostrarle come muore un prete cristiano, senza offendere il suo dolore e la sua disperazione di madre? Fece leggere a uno dei ragazzi, a turno, la Passione di Cristo nei quattro Vangeli, in un angolo della stanza, lentamente e a bassa voce, senza interruzione ”.
Alla sua ultima lezione, volle accanto a sé solo pochi amici, gli allievi e gli abitanti di Barbiana. Solo pochi intellettuali ebbero il permesso di andarlo a trovare. Ci fu anche chi godette di privilegi particolari, come la Marianne, una signora anziana d'origine austriaca che quasi tutti i giorni veniva a trovarlo in via Masaccio e portava sempre un fiore. Per lei la porta era sempre aperta. Don Lorenzo era a lei legato da tenerissimo affetto. Ricordo che quando appariva a Barbiana, dopo essere salita a piedi dalla stazione di Vicchio, il priore faceva sempre una piccola pausa, era commosso dal suo vestire umile e semplice.
La necessità di avere cure adeguate insieme al rischio di emorragie esterne, un aspetto della malattia che lo terrorizzava, potrebbe suggerire la spiegazione più banale del suo trasferimento a Firenze. La madre rappresentava, insieme ai ragazzi, l'unica sicurezza materiale. Le istituzioni e la sua Chiesa lo avevano abbandonato. Le provviste per il viaggio per confortarlo, rincuorarlo e sostenerlo nella sua ultima impresa, il viatico per intendersi, lo volle dai suoi ragazzi.
Andando in via Masaccio, volle ospitarci e illuderci, con le sue gioie e le sue tragedie, anche nella sua vecchia casa.
Colmava, con questo suo comportamento, la distanza chelo aveva, per vent'anni, separato da Dio. “ I vent'anni passati nelle tenebre dell'errore ....” . Un insegnamento duro, anche per la madre.
Pochi giorni prima della morte, a Nevio, che gli aveva portato un pò d'acqua per inumidire la bocca, disse: “ Nevio, ti ho insegnato tutto quello che avevo da insegnarti, ora imparerai come si muore! ”.
Ci diceva, sul letto di morte, che bisognava per tempo imparare a morire. Chi non si abbandona alla morte vuol dire che prima non si è abbandonato alla vita, alle passioni e all'amore. Le cose che diceva non erano facili da capire. A volte mi è sembrato violento, avevo solo 17 anni. Una volta, saranno state le 2 o le 3 di notte, tra tanti colpi di tosse, mi tenne sveglio dicendomi: “ Te, Edoardo sei convinto di volermi bene? ”. Mi spiegava che il tipo di affetto che provava per me lo avrei capito da adulto: “quando avrai bambini”. Erano discorsi devastanti. Fatti all'improvviso, dopo che per ore aveva giocato con te, tenendoti a sedere accanto a sé sul letto. Un giorno, era appena tornato Francuccio dall'Africa, si era messo a fare il trenino: “ Ciuffe, ciuffe. Edoardo, monta sul trenino. Siamo sul trenino ”. “ Vai , dicevo tra me e me, ci siamo ”. Invece era lucido. Nella realtà, in treno con lui non ero mai andato e quando lo avevo accompagnato a Firenze in macchina, ricordo che lui faceva sempre la stradina di Sagginale e per Vitereta saliva alle Salaiole. Con il trenino facevamo un'altro percorso, quello verso Pontassieve. Riviveva lo scenario del Mugello raccontandomi ciò che vedeva dal finestrino. Dopo un chiasso indiavolato a questa maniera, non so come facesse a trovare l'energia per giocare, mi consentì di andare a letto. Lui non aveva mai voglia di dormire, magari faceva dei pisoli dopo, quando c'era la gente. Un'altra notte, mi parlò della fede come di una grazia di Dio, citò anche KierKegaard. A Barbiana ci aveva parlato solo di Socrate, mai ho sentito citare altri filosofi o comunque non me ne ricordo. L'anima spasimante doveva vivere uno "stato d'abbandono". "Cosa ti costa? Cosa ti costa?" mi ripeteva.
A Giorgio che era più grande e dei ragazzi di San Donato uno di quelli che gli era stato più vicino, dirà: “ Anche tu preghi perché guarisca? ”. E Giorgio: “ No, non prego nulla! ”. “Meno male perché sono stanco. Non né posso più e voglio morire"”.
Dominati dall'insicurezza, dal senso di colpa e da una sostanziale sfiducia nei valori spirituali, noi comuni mortali siamo incapaci di andare con fiducia verso questa profonda avventura. Soli e senza nulla, mostriamo ancora il nostro egoismo inquietante. Per lui, uomo di fede, invece il “Nulla”, nel quale scomparire, non esisteva . La morte fa paura, perché è la proiezione della vita, così come è stata e come è ricordata. Il priore sapeva di avere una malattia letale e di dover fare i conti con la più gelida delle realtà e senza speranza alcuna. Morendo ha rivelato a noi tutti, i due suoi più grandi segreti : amore e perdono. Insieme alla carità paolina, ha manifestato l'esperienza dei mistici che non si mettono mai in viaggio con pesanti zavorre, fatte di rimpianti e frustrazioni. Lui, con tutti i pudori, sobrio, austero e riservato, propose all'improvviso il suo corpo in completa nudità. In tutto questo non c'era volgarità. Morì nudo, senza dubbi o paure. In un volto decifrabile, le sue ultime parole che ricordo furono:“ Si muore nello stesso modo in cui siamo vissuti ”. Con questo intendeva dire che se il nostro fardello non è carico d'amore, non ci resta che aggrapparci all'illusione. Il suo amore invece faceva paura, perché troppo grande, “compromettente” e difficile da contraccambiare. Ancora c'è chi si chiede se il suo comportamento fu dettato dalla fede o dalla finzione. Sicuramente l'amore ebbe un ruolo determinante! Lo dimostrerebbero le testimonanze degli amici più cari.
Per esempio la Gina:
“ Nella malattia si è manifestato per quello che è. Senza vergogna si è rimesso nelle vostre mani. Un ragazzo passava a tutte l'ore. Noi qualche volta ci hanno fatto aspettare per entrare. Io l'ho fatta l'anticamera per andarlo a trovare. Invece i ragazzi entravano anche se c'erano i medici. A volte li cercava. Probabilmete ha voluto dire: “ Sono una persona come voi ”, proprio nell'essenzialità delle cose nude e crude, come è la vita di ogni uomo. Deve essere stata una grande soddisfazione essere stati vicini nella sua malattia. A quel tempo vi è costato sacrificio, perché tu te lo vedi sparire. Eravamo agli sgoccioli. Una persona quando arriva a questi punti è come se la facesse parte di te”.
Oppure Giorgio Falossi:
“ Alcuni giorni prima di morire, in presenza della mamma e dei ragazzi, mi disse di portare, a salutarlo, la mia moglie e le mie figliole. Si andò un pomeriggio. Quando s'arrivò c'erano il fratello Adriano e il dottor Abbozzo che gli facevano delle trasfusioni, uno per braccio. Don Lorenzo disse: “ Non avvicinatevi altrimenti prendete la scossa ”. Ci sedemmo più in là e la mia figliola che aveva 5 anni mi disse in un orecchio: “ Babbo, quando si va via si prende l'ascensore? ”. E lui subito: “ Cosa vuole la bambina?”. “ Don Lorenzo, dico io, la Paola ha visto l'ascensore quando siamo arrivati e chiede se lo può prendere quando si esce ”. E don Lorenzo: “ Adriano per piacere porta la bambina a fare una giratina con l'ascensore ”. Il professore Adriano staccò i tubi da un braccio e, presa la bambina per mano, fece tre o quattro viaggi con l'ascensore. Poi tornò a fare la trasfusione. Tutti erano rimasti di sale. A proposito e a distanza Adriano così parlava del fratello, pensando a tale episodio: “ Lorenzo è l'amore, non si può pensare a un amore più perfetto del suo. Lorenzo amava con animo d'artista”.
Ho sempre nel cuore quando, pochi giorni prima di morire, il venerdì, ci raccontava quello che si preparava in Paradiso per il suo arrivo: “ C'è un gran ballo di angeli e santi, tutti vestiti di bianco che mi aspettano. Una gran luce e una gran gioia. E si suona la marcia nunziale. Pensate, per me che non sono mai stato sposato, si suona la marcia nunziale ”. Io sedevo accanto a lui sul panchettino e piangevo in silenzio. Il priore vedendomi disse con voce scherzosa: “ Quando morirai te cosa ti suoneranno? ” Per ragioni di salute non avevo mai corso in vita mia. Risposi: “ Suoneranno la marcia dei bersaglieri perché in Paradiso mi metterò a correre anch'io”.
Oppure Mario Rosi:
“ Fino all'ultimo si è sentito maestro. Anche il suo desiderio che si andasse a fargli nottata diventava un insegnamento: “ Potrei non avere alcuna necessità. Potrei anche pigliare un infermiere che sarebbe più abile di voi”. Ma voleva che si vedesse che cos'è la morte, la sofferenza giorno per giorno prima della morte. Pativa in un modo davvero indicibile.
Ad un certo momento la ghiandola ipofisi non gli funzionò più, e perdeva acqua in continuazione. Si era disidratato. Una notte, proprio mentre gli inumidivo le labbra, fece: “Quanto è bella l'amicizia, specialmente quando siamo in situazioni simili ”. Ed è vero: se l'amicizia è una cosa salda, lo si vede quando uno soffre per un'altra persona che soffre. La sua era ancora una scuola ”.
Ancora la Gina:
“ A Adriano chiese quanto gli restava da vivere. E' morto cosciente. L'Eda m'ha raccontato che la mattina che morì andò per salutarlo e lui le disse: “ Eda finalmente mi è cambiata la malattia ”. “ Dio volesse ” rispose l'Eda. E don Lorenzo: “ Ho una emoraggia interna ”.
Una volta si venne e non ci fecero entrare perché appunto lui doveva essere tutto nudo sul letto, perché non sopportava le coperte o il lenzuolo. Era di giugno e faceva caldo. Negli ultimi tempi di Barbiana quando salivo con i bambini, lui ci scherzava sempre e li voleva vicino. Mi ricordo che a Sandro e alla Gianna gli disse: “ Quandò sarò morto, dovrete venire sulla mia tomba con un secchio d'acqua e gettarmela sopra, perché il priore ha sempre caldo e allora mi rinfrescate ”. Si sentiva questo gran fuoco dentro. Un fatto crudo me lo disse anche Quintilio, una notte la fece anche lui. Disse: “ E' un uomo ridotto al punto da non riuscire a pisciare da solo”.
La bocca, per un paio di settimane, gli era diventata una piaga. Doveva bere molti liquidi. I ragazzi a turno lo accudivano, il giorno e la notte. Non potendo più parlare si mise a scrivere bigliettini. Alcuni li scrisse anche a don Bensi nell'unica visita, nei due mesi di malattia terminale. Così descrive tale momento il vecchio sacerdote, scosso dall'emozione: “ Me li scrisse quando andai a vederlo l'ultima volta. Molto belli, almeno per me. Mi dicono tanto, perché rivivo quella scena orrenda. Per vincere la commozione, ci si difendeva un po' tutti e due con l'ironia. Mi scrisse un biglietto: “ Mi diverte l'idea che oggi parlo peggio del mio Marcello ”. Cercai di ribattere nello stesso tono: “ Ma si può sapere che cosa vuoi? Sei insopportabile! Hai un dottore per le ciglia, un dottore per le unghie del piede sinistro. Questa non è l'agonia d'un povero prete!”. E lui scrisse la risposta: “ Perché mi prende in giro della mia morte superorganizzata? Non le piace? ” e accennando ai suoi ragazzi che, come al solito, erano nella camera: “ Io non ho mai fatto a nessuno quello che questi figlioli fanno a me. Passo le nottate a ammirarli ”. E in un altro biglietto: “Ora comincio a essere stanco oltre i limiti della mia capacità. Ma spero che non sia una bestemmia ”. E in un altro ancora, accennando all'ultima eucarestia che aveva avuto: “ Era difficile indovinare meglio il giorno del Viatico, perché il giorno dopo non potevo più inghiottire ”.
Non tornai a trovarlo. Glielo dissi: “ Abbi pazienza, ma io a vederti morire non ci sto ”. Fu la sua mamma a telefonarmi la notizia della morte ”. Comunque, monsignor Raffaele Bensi, venne solo quella volta.
Ricorda ancora la Gina:
“ L'ultima volta che andai a trovarlo, non ci fecero entrare. Si rimase sulle scale con altre donne. Facevano entrare solo voi ragazzi e l'Eda. Non si poteva entrare perché era nudo. Morì come san Francesco. S'aspettò fino alle due del pomeriggio, poi si tornò a casa. In serata giunse la notizia della morte. A Firenze siamo andati a trovarlo quattro o cinque volte. Si è avuto delle conversazioni in comune e per esempio ci ha fatto leggere dei brani dei libri o dei salmi. Andavamo a pregare per lui, praticamente. Una di queste volte disse: “ Io sono convinto, c'era anche l'Eda che spesso stava laggiù, che tra 10 anni se non va più di moda suonare il claxon alle curve, quella bischera della Gina e dell'Eda le diranno ai loro figlioli: “ il priore diceva che bisogna suonare ”. Sono convinto che forse queste due le rimarranno ferme e legate a quello che mi è uscito dalla bocca ”. Voleva dire che se le cose stanno cambiando, dobbiamo cambiare anche noi. Il mondo evolve e cambia, questo era l'insegnamento. Aveva capito quanto si dipendeva da tutto ciò che lui diceva.
Quando si ebbe la notizia che era morto si tornò a trovarlo che era già vestito e esposto. Poi si tornò ad aspettarlo a Barbiana dove si fece la veglia tutta la notte in camera sua. Io non la feci intera come i ragazzi. Durò parecchio questa notte. Poi ci fu il funerale ”.
Anche Florit sarà accanto al Milani un mese prima della morte. Lo racconta la madre in una intervista concessa a padre Nazzareno Fabbretti: “ Sì, è in questa stanza che venne il cardinale. Fu una cosa penosa. Mi sentivo a disagio. Lorenzo era lucidissimo, anche se non poteva parlare, e il cardinale non trovava che pietose parole, frasi d'occasione per aiutarlo: “Offra tutto al Signore. Coraggio ”. Solo per me, ricordo bene, mentre stava per uscire, ebbe una parola più umana. Mi disse: “ Non le dico di avere pazienza, di pazienza ne ha già avuta tanta ”. Poco prima don Lorenzo aveva consegnato al cardinale un fogliolino: “ E' venuto perché le hanno detto che non posso più parlare? ”. Una situazione imbarazzante e fortemente emotiva, infatti il sacerdote più giovane che accompagnava il cardinale era scoppiato in lacrime. Così scriverà il cardinale, nel suo diario alla pagina del 21 maggio 1967, descrivendo l'ultimo incontro: “ Alle ore 9,30 mi recai in casa di don Milani. Sembra grave. Stenta molto a parlare. Malgrado tutto l'ho baciato alla fine. Due suoi allievi non si sono mossi mi hanno guardato di malocchio e così una religiosa calasanziana (Rosa Maria) che dice di essere del cenacolo di padre Balducci e una nevrastenica professoressa di Borgo S. Lorenzo ”.
Dirà il Priore due giorni prima di morire: “ Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa per la cruna di un ago ” . Era lui la morte. Un piccolo rigolo di sangue e due occhi sgranati in avanti indifferenti al gioco della vita. Morì seduto, proteso in avanti e sostenuto da Michele. Il suo corpo non lo teneva più prigioniero dentro la carne e le ossa.
Moriva il 26 giugno del 1967 ad appena 44 anni. Nel testamento lasciato a noi ragazzi scrive: “ Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non ho punti debiti verso di voi, ma solo crediti. Verso l'Eda invece ho solo debiti e nessun credito. Traetene le conseguenze sia sul piano affettivo che su quello economico.
Un abbraccio affettuoso, vostro
Lorenzo
P. S. Quando ho scritto che non ho nessun debito verso di voi facevo per dire
Cari altri, non vi offendete se non vi ho rammentato. Questo non è un documento importante, è solo un regolamento di conti di casa. Le cose che avevo da dire le ho dette da vivo fino a annoiarvi.
Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo
Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L'ho scritto per dar forza al discorso!
Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.
Un abbraccio, vostro Lorenzo |
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PER CONVEGNI SULLA FIGURA E LE OPERE
DEL NOSTRO MAESTRO,
PER INCONTRARE IL GRUPPO STORICO
DELLA LETTERA A UNA PROFESSORESSA:
info@barbiana.it - tel: 3474835167
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Aspettiamo consigli e idee per organizzare meglio i nostri gruppi di lavoro:
IMPARIAMO DAI GIOVANI
SCUOLA LIBERA
Il nostro liceo si trova in pieno centro storico a Firenze, dalle nostre finestre ci par di toccare il Ponte Vecchio o la Cupola del Brunelleschi. La mattina c’è chi viene a scuola a piedi o in bici perché abita in pieno centro e chi, sveglio dalle 6, si fa anche 40 o 50 km in bus o treno perché abita sulle colline o nelle vallate attorno a Firenze. Siamo dunque piuttosto variegati. E’ proprio dall’incontro di coloro che solo per facilità chiamiamo ancora “Pierino” e “Gianni” che è scaturito tra di noi e nel nostro collettivo studentesco un acceso e vivace dibattito, che ci ha avvicinati anche all’esperienza della Scuola di Barbiana, sull’attuale sistema scolastico: la sua struttura e le sue finalità.
Abbiamo cercato, insieme, di dare un volto al disagio diffuso, di strutturare con coscienza il sentimento forte di noia e stress avvertito fra i banchi di scuola, che pure ha ragioni ben precise. Insieme, abbiamo sviluppato e accresciuto la volontà di vivere la scuola non come luogo di noia, competizione e nozionismo con l’unico fine della valutazione, ma come comunità che abbia una visione ampia e critica della società che ci circonda. Vogliamo una scuola che sia spazio di partecipazione comune e diretta, vogliamo darci mezzi che ci permettano di interpretare le realtà che viviamo con senso critico e consapevolezza. La scuola, così com’è, ha bisogno di essere “dell’obbligo” perché non è avvertita come un piacere.
La scuola è organizzata secondo le logiche di mercato e non secondo i bisogni reali di noi studenti: da qui siamo partiti. In questo modello di scuola, infatti, non c’è spazio per attività, curiosità, creatività e senso critico. I Saperi, invece di essere condivisi e resi dinamici, sono standardizzati e la personalità di ciascuno deve rientrare negli schemi didattici preconfezionati. A ciò contribuiscono la mancanza di uno scambio d’idee e di ascolto reciproco. I Saperi così vengono solo dall’insegnante, noi studenti ci limitiamo a rispondere alle richieste.
In una logica aziendale di razionalizzazione e di conseguimento del profitto, non esiste un tempo per riflettere e discutere, ma solo quello per assorbire le nozioni e per produrre, dimostrando quanto ci siamo attenuti alle aspettative. Le conoscenze sono così calate dall’alto. Le nostre giornate sono scandite da verifiche continue, specie in certi periodi, i cui sistemi di valutazione ci mettono in competizione. Non potendo deludere le aspettative poste di noi e il curriculum che ci siamo fatti, dobbiamo farci guerra. Ciò che conta è ciò che sappiamo dimostrare alla fine. Quante volte abbiamo copiato per strappare un bell’8! Ai prof va bene. Non ci conoscono, è il risultato ciò che conta.
La scuola educa così al più infimo egoismo, prima virtù della società capitalista. La scuola di oggi si è ridotta davvero ad inculcare un sapere vuoto e spento; ciò è causato dal conflitto esistente fra noi studenti, e di noi con i prof. Non esiste educazione senza relazione. I prof si arroccano in una struttura gerarchica, armati di penna e registro, in virtù della quale esigono il rispetto che senza un rapporto di dialogo non posso avere altrimenti. Non è triste tutto ciò?
Ci sentiamo offesi da una scuola che ci considera alla stregua di clienti esterni. D’altronde, la scuola è stata declassata a bene di consumo e noi non possiamo che essere consumatori, i più soggetti all’omologazione. Lo “studente da 4” non rispetta le prospettive aziendali e innesca un pericoloso calo delle produzioni. Il padrone licenzia, i prof rimandano o ancor peggio ignorano. Con meno facilità tendono a bocciare, perché così si sciupano la reputazione.
Vediamo nel voto lo strumento mediante il quale tentano di quantificare il prodotto uscito dalla nostra fruizione del bene-di-consumo-scuola. La scuola insegna sempre di più il tecnicismo da esami e verifiche, dove non è dato spazio alla libera espressione. Ancora oggi si va a scuola per “mietere esami” e crearsi carriera personale, mediante la competizione innescata dalla valutazione intensiva.
Sentiamo questa scuola sempre più oppressiva: il registro elettronico, ad esempio, è uno strumento di controllo ossessivo. Noi crediamo in una scuola dove non ci sia bisogno del voto di condotta perché tra le persone esistono legami di solidarietà, comprensione, rispetto che implicano naturalmente un comportamento corretto. Contro il controllo e l’omologazione, vogliamo una scuola che sia di gestione collettiva, in cui l’educazione sia un’esperienza comunitaria di accrescimento non solo individuale.
Il forte senso di noia avvertito a scuola al quale accennavamo, viene dal fatto che ancora oggi la scuola è slegata dalla realtà. La vita e la politica a scuola non ci entrano mai, così da farci apparire il mondo lontano o passato. Nella vita vera ci troviamo ad essere anonima massa, a vivere città, ambienti e contesti che non sentiamo nostri. Non abbiamo gli strumenti per essere germi attivi per il cambiamento, omologati dalla scuola siamo condannati ad un destino di passività e di delega. E poi vi meravigliate di noi, giovani generazioni, prodotte dalle vostre scuole!
Questa scuola ci sta stretta.
Vogliamo essere una comunità, che condivida tempi, spazi e Saperi, che dia capacità e opportunità a tutti di esplicitare la propria personalità e i propri interessi, da mettere al servizio della collettività. La scuola che vorremmo è una “Zona Autonoma” rispetto alle dinamiche di questa società: luogo dove non esistono competizione né emarginazione, dove il sapere è qualificato per il suo valore e non ridotto a merce, dove c’è possibilità di risolvere i conflitti in maniera nonviolenta. Vogliamo una scuola rispettosa dei contesti, dei ritmi, della persona di ciascuno e che così crei il contesto comune di cambiamento.
Siamo ancora la minoranza, sentiamo di aver distrutto e contemporaneamente costruito tanto, il tutto tra di noi, in una comunità di pari.
Collettivo Autorganizzato Machiavelli – Capponi (Firenze)
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“ IN ULTIMA ANALISI SAREMO GIUDICATI PER L'AMORE”
Il Priore scrive che il suo 'metodo' sta: “nella cruda precisione
e nella cruda aderenza della parola al pensiero”.
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Nel 1958, lo stesso anno in cui don Lorenzo pubblica Esperienze Pastorali, Enrico Bartoletti viene eletto vescovo ausiliare di Lucca. Bartoletti, stimato quale innovatore dei metodi educativi del Seminario, era stato insegnante di scrittura sacra, nel periodo in cui Lorenzo frequentava il primo anno di teologia al Cestello, a Firenze. L'amicizia continua negli anni successivi. La famiglia di Enrico resideva nella parrocchia di San Donato di Calenzano, dove era anche nato. Del loro rapporto, abbiamo cenni nelle lettere di Lorenzo alla madre: “Ieri sono stato a Careggi da un mio ragazzo e poi da don Bartoletti, dove ci siamo un po' presi a parole perché eravamo stanchi tutti e due”. “E' venuto a trovarmi don Bartoletti con sei seminaristi”. “Ieri sono stato al Minore a chiacchera da don Enrico, quando s'è guardato l'orologio erano le 8 meno venti”.
Il “buon rapporto”, iniziato negli anni del Seminario, termina con l'allontanamento, nel '54, del cappellano da San Donato e l'esilio a Barbiana. Don Lorenzo Milani, per quanto isolato dai prelati del luogo, confidava nel suo appoggio, anche per la vecchia amicizia e stima reciproca. Conflitti e divergenze c'erano anche prima, ben espressi dal Priore nella lettera a don Piero, prima parte della seconda appendice di Esperienze pastorali: “Io rimugino pensieri di ribellione. Li alterno a preghiere contrite. Poi d'improvviso mi impongo anche un esame di coscienza: L'altro giorno don Enrico m'ha detto: “Tu dai tutta la colpa ai padroni. Il male lo vedi da una parte sola”. Provo a mettermi in questo ordine di idee. Per scrupolo provo a pensar male anche di Mauro... Ma no; non regge! son cose che si posson dire solo da un tavolino quando gli uomini non son che cifre su un foglio di carta. Che si posson respirare solo nell'aria malsana dei giornali 'indipendenti'. Che si dicono per essere 'oggettivi', per tenersi al di sopra delle due parti. Senza ricordarsi che tra il forte e il debole le parti non sono uguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza. Ce n'è tanti che osano parlare così. Me lo dicono degli operai in genere. In faccia a un operaio nessuno si proverebbe! Qui invece bisogna parlare di uomini in carne ed ossa, con un nome e un cognome. Gente che s'è vista in viso, di cui si sa come è composta la famiglia. Esca don Enrico dal suo studio, entri in casa di Mauro. S'immerga sotto il peso di tre o quattro disgrazie come le ha lui. Si provi ad alzare gli occhi sul suo viso. Sul viso che ha ora mentre mi pedala accanto. Quello che ha in chiesa. Quello che ha sui banchi della Scuola Popolare”.
Quello che il giovane cappellano contesta, duramente e senza mezzi termini, è il tipo di cultura che allontana il prete dal popolo e la Chiesa dal povero. La sua pastorale “missionaria”, la sua collocazione di classe, provocò scontri e incomprensioni, fino a dividere il popolo.
In una lettera ad un amico, scritta nel 1971, Bartoletti conferma uno stato d'animo del quale il giovane vescovo non potrà liberarsi mai, neppure dopo la morte del suo illustre allievo: “E' vero che la chiesa - cioè tutti noi - è spesso pietra d'inciampo; però sentire tanta acredine in mezzo a noi, scoprirci irrimediabilmente divisi da quelli che abbiamo amato e amiamo, mi sembra lo scandalo e la sofferenza più grossa”.
NelI'Omelia del Giovedì Santo del 1969 rivolgendosi ai Sacerdoti, torna l'amarezza di una dura considerazione: “... per noi, staccarci da Cristo significa cadere nel nulla della nostra personalità e della nostra funzione; recedere dalla comunione viva con lui, significa decadere nel 'personaggio', staccato ed avulso dalla nostra vita; perdere in profondità e in calore il nostro rapporto con lui, vuol dire rivestirci degli abiti del funzionario scettico e deluso. No, non può esservi per noi che un solo amore, indiviso e invadente, profondo e dinamico, geloso e fedele: l 'amore di Cristo, della sua persona rivelatrice del Padre, della sua realtà umano-divina, della sua presenza misteriosa, ma ineludibile e vera, nella storia del mondo. AMORI CHRISTI NIHIL PRAEPONERE il grande assioma della regola benedettina deve essere il vero ed unico criterio della nostra validità, il segno qualificatore della nostra vita”.
Una religiosità indubbiamente profonda, ma anche parallela a quella del Priore di Barbiana che, nel suo testamento lasciato ai poveri, dirà: “Ho voluto più bene a voi che a Dio ”.
La povertà e il peccato, esperienze di vita mai toccate da tanti prelati, diventano, per Lorenzo, condizioni per lo stato di grazia necessario alla fede, dono di Dio. Almeno così si esprime, pressato da Eda Pelagatti e da don Raffaele Bensi, padre spirituale di Lorenzo ai tempi del seminario, nelle due lettere scritte, poco prima, del ritiro di Esperienze Pastorali. Lorenzo invita Bartoletti a tornare a essere un uomo passionale e a coniugare finalmente i due imperativi della Verità e della Carità. Dure le critiche verso il vescovo di Firenze, coaudiuvato già da monsignor Florit, e di Prato, monsignor Fiordelli. Ancor più dure quelle rivolte a Luigi Gedda, allora presidente dell'Azione Cattolica. Se, da una parte, sente vicini il prete operaio don Borghi e don Divo, dall'altra, violenta è la reazione verso i confratelli che lo hanno allontanato da Calenzano, Campani, Santacaterina ecc... .
Lettera del 10 settembre 1958
Caro Enrico, prima l'Eda e la Dora, (la “perpetua” e una donna del popolo) poi la mamma, poi don Bensi tutti congiurati hanno deciso che io dovevo scriverle un biglietto d'auguri e io obbediente. Saranno però auguri circonstanziati e non generici. Premettiamo subito che questa lettera non vale come un sasso sopra il passato perché io da fedele allievo del proposto “perdono ma non dimentico”. Ma se il mio farsi vivo, anche se a grugniti, è un atto di affetto che le può far piacere lo faccio volentieri. Eccole dunque un primo elenco di auguri che mi sono venuti al cuore appena ho saputo che lei avrebbe avuto in mano quel potere sui parroci che io ho visto così male usato a Firenze e a Prato.
Il primo augurio è che lo Spirto Santo le dia un po' di sfacciataggine e di maleducazione. Le insegni insomma a dire la verità senza preoccupazioni di carità, di pietà, di prudenza, di edificazione. A me risulta che questo lei non l'ha mai fatto e quando se ne parlava insieme lei mi diceva per es. che non è contro la verità il tacere. Ma che vol'ella Eccellenza, che io le auguri ciò che non vorrei per me? Ognuno deve augurare agli altri ciò che stimerebbe somma fortuna possedere lui stesso. Io osservo la fine che abbiamo fatto. Lei la fanno vescovo in odore di santità, me mi fanno priore di Barbiana in odore di finocchio, di eretico, di demagogo. Son tentato di credere che tutto questo abisso tra di noi abbia avuto solo origine dal contrapposto nostro modo di proporre e posporre fra di loro i due imperativi della Carità e della Verità. Ma ormai che queste due nostre contrapposte scelte hanno già raggiunto le rispettive logiche conseguenze: il vertice della loro ascesa (a lei mezzo metro di faldisterio, a me i 470 metri sul mare) ora che non possiamo più mutare il giudizio degli uomini su di noi perché dei vescovi non si dice mai che son finocchi né altra verdura e dei finocchi non si dice mai che son santi.
Ora però restiamo liberi di correggerci segretamente in vista del giudizio di Dio. E mentre io mi sforzerò di amare anche le cose meno amabili per es. i vescovi e le persone onorate e educate, Lei si sforzerà di dimenticare tutto ciò che ha imparato e insegnato in fatto di carità, tatto, prudenza, educazione. Si proporrà di odiare qualcuno fieramente e di dirglielo in faccia. Si proporrà insomma di tornare finalmente un uomo passionale e sguaiato, capace di farsi odiare da una infinità di persone, ma deciso a non fare più bestemmiare la verità del Vangelo da quelli che hanno perso la fede nel Vangelo il giorno in cui si sono accorti che i preti misuravano le loro parole con 7 altri metri prima di misurarle con la verità (carità, prudenza, edificazione, opportunità, consuetudine, psicologia, diplomazia, galateo). Ma non che io abbia ragione e che le possa proporre a imitazione il luminoso esempio della mia vita. Si tratta soltanto di correre su due diverse, diversissime strade, più lontano possibile l'uno dall'altro, ma a somiglianti mete. Io imparare ad avere pietà senza per questo cominciare a dire bugie. Lei smettere di dire bugie senza per questo smettere di avere pietà.
Qui termina il primo augurio. E la dispenso dal rispondermi perché le lettere dei vescovi sono cose delicate e quando un vescovo scrive deve consultare non 7 metri soli, ma 490 metri diversi prima di arrivare al metro della Verità. Il primo di questi metri è la dignità episcopale, il secondo è la solidarietà con i confratelli (come dite voi? Compastori?), il terzo è la congregazione del Concilio, il quarto è San Gedda, il quinto è il prefetto di Lucca, il sesto è che direbbe l'Espresso? ecc. E io illuso che pensavo di poter consigliare a un vescovo a dire la verità. Sono giovane ancora.
Il primo è un augurio disperato come di quello che pisciava in mare. Un augurio che si può fare solo se si crede molto nello Spirito santo. Per confortarmi mi rileggo l'episodio di Pietro ai tempi in cui lo Spirito Santo (era ancora un po' giovane anche lui) consigliava ai papi di rispondere male alle autorità e disobbedire alla legge civile e alle forze dell'ordine.
Il secondo augurio è che lo Spirito Santo lo aiuti a non proteggere i sacerdoti onesti e credenti, ma a tenere in onore solo le spie e gli atei. Tempo fa io non avevo ancora capito questa cosa, ma oggi ne ho intesa l'intima necessità: se lei contraddicesse questa antica prassi della chiesa e onorasse gli onesti a danno dei filibustieri otterrebbe solo che i filibustieri aggiungerebbero ai molti loro peccati anche l'apostasia e la bestemmia, perché non hanno la forza interiore per sopportare la croce. E gli onesti, invece, blanditi dagli onori e dai posti di responsabilità si corromperebbero e distrarrebbero e lei avrebbe così raccolto il bel frutto di una diocesi evirata anche dei pochi preti onesti che le rimanevano e ridotta ad una spelonca di ladroni.
Il secondo augurio è dunque pienamente realizzabile e senza sforzo. Si tratta solo di chinare il capo, non vedere nulla e lasciare che il sadismo resti l'unica regola ascetica del Vicario. Per la diocesi otterrà il bene che or ora ho detto e per lei otterrà la salvezza dell'anima perché vivere circondati da certa gente deve essere una gran croce, mentre vivere circondati da brava gente una grande gioia. Ma la croce è salutare. Tenga dunque la croce e non si discosti in nulla in questo dalla prassi dei suoi venerati compastori.
Il terzo augurio è per il seminario di Lucca. E questo è un augurio pieno di speranza fiduciosa. Questo lei lo può fare. Ora non ha più nessuno sopra di lei. Si chiuda in seminario, chiuda la porta dietro di sé, non veda, non riceva nessun altro, lasci al sapiente sadismo del Vicario tutte l'altre cure pastorali, lasci le molte e inutili conferenze, venda il campanello del telefono, diabolico interruttore di pensieri e discorsi. Prenda i seminaristi a tu per tu e li educhi diversi da lel. Li educhi sinceri. Cioè, correggo, li educhi, così come lei è nel suo intimo là dove io sinceramente la stimo capace di fare immenso bene, ma non li educhi così come lei si impone di apparire. La prima regola sarà che un seminarista che non commette mai un peccato contro la santa purezza (e poi dicon che io sono sboccato!) non può aspirare al sacerdozio. Occorre almeno un anno di 'prova' (ma non la 'prova' che intende la Congregazione) per aspirare a diventare pietosi amministratori del sacramento del Perdono. Una volta ebbi la disgrazia di incappare in un confessore che in vita sua non si era mai fatto un 'peccato contro la santa purità' e mi fece: Oooo (suono della eu francese) per un quarto d'ora e poi disse “Scellerato”.
Lei la pensa come me. Lo so perché glielo ho sentito quasi dire. Lo so perché l'ho quasi letto sul Vangelo in più di una sua pagina. Lo so perché lo pensiamo tutti ogni giorno, ogni volta che confessiamo i ragazzi puri. Ragazzi insignificanti che non riusciamo a invidiare neanche dopo aver sorbito 7 giorni di 4 prediche di un'ora ogni giorno dagli oblati di Rho. “Avete modo di confessarvi la mattina prima della Messa?”, domandai anni fa a un seminarista di Settimello. “Sì, in teoria ci sarebbe il modo, ma non lo fa nessuno, tanto cosa serve? Quando uno si è confessato la sera. Come si fa a far peccati la notte?” C 'era presente un ragazzo di S. Donato, un tessitore di 15 anni. Mi guardò un attimo poi guardò gli occhi di Antonio, scosse il capo poco convinto e gli disse: “Io lo so come si fa a fare peccati di notte. Se voi li fate di giorno siete peggio di me”. Lei la pensa come me e allora là dentro ora lo può dire. Quelli puri li faccia visitare a un dottore. Quelli impuri li mandi avanti e li abitui a confessare bene.
Non le consiglio mica di far dire parolacce ai seminaristi. Nonostante la mia fama io ne dico pochissime. Appena appena quelle per il consumo. I giovani migliori tra quelli che ho educato io non ne dicono assolutamente mai (lo domandi a chiunque). Non è nelle parolacce il mio 'metodo', me ne vergognerei. E' però nella cruda precisione e nella cruda aderenza della parola al pensiero. Ed è inutile rispondermi con raggiri comuni a lei e a don Bensi: “Quella non è sincerità, è una ostentazione di sincerità che alla fin fine è una nuova truffa maggiore della prima”. A me questi discorsi mi danno noia perché non sono un cretino e se abituo i ragazzi alla sincerità li abituo proprio così entro quel limite e non oltre e furbo quanto voi dite sono anch'io per saper distinguere la sincerità vera dalla ostentazione.
Ma il sesto comandamento è solo un particolare perché un seminarista che cova e nasconde in cuore turbamenti de sexto non è in peggiori condizioni di un altro che cova e nasconde turbamenti sul Papa che ha detto il mese scorso che “non tutte le guerre sono ingiuste” e che quelle giuste devono esser “ben preparate e tempestive”. O d'un altro che non riesce ad equilibrare l'affetto per il babbo comunista e la convinzione che gli ispirano certi racconti vivi di soprusi padronali e governativi che ha sentito in vacanza, con la diffidenza che gli ispira il tono conciliante e reticente della politica cristiana che gli si racconta in semmario.
Questa del seminario è la penitenza che io le propongo per le molte bugie che ha detto nella sua vita e che le han valso il pastorale. Ho inteso che il mio primo augurio è fuori delle sue possibilità umane. Insisto allora in quest'ultimo. Butti la vita intera su di loro per costruirli come lei non ha saputo essere. E poi dimenticavo, non tralasci di innalzare il livello della loro preparazione umana, diminuendo le materie scientifiche. Da quel che ho visto io per ora, quello che occorre è solo la lingua. Bisogna fargliela amare come il dono più alto che abbiamo. Tutto quello che riguarda la parola è lo studio adatto per noi: filologia, grammatica, sintassi, etimologia, lingue antiche, lingue moderne. Bisogna fargliene tanta e tanto viva che finiscano per averne grande gioia. E devono amarla col cuore sempre proteso verso gli infelici, di cui un giorno saranno pastori e che proprio della lingua avranno bisogno. Bisogna che i seminaristi abbiano ben presente che il muro contro cui cozzeranno è questo vuoto immenso di lingua che hanno i poveri e che passino quei loro tredici anni di martirio a prepararsi con fede e speranza amando il greco più della Gazzetta. Ora ecco tra i miei auguri gliene ho fatto uno ben possibile. Dirle di produrre seminaristi santi sarebbe ben stupido perché non è in suo potere. E dirle di produrre seminaristi impuri e dolenti son cose che tutti pensiamo, ma non si possono dire. Vanno intese a volo e non dette. E dirle di produrre seminaristi schierati per la classe operaia sarebbe ovvio ma lei non ne avrà mai il coraggio. Ma dirle di produrre seminaristi padroni della parola e capaci di amarla e di insegnarla e appassionati a qualcosa che non sia troppo pericoloso come sono le cose sociali, né troppo basso come sono le cose di sport, né troppo vago come sono le cose dell'estetica (musica e arte), né troppo pio e incredibile come sono gli insegnamenti ottimistici di una chiesa tutta santa da Fanfani a Tirapani, né troppo noioso e disgustante come sono le materie di studio delle scuole, là dove la corsa a finire il programma, presentarsi agli esami e tenersi in pari col mondo toglie ogni amore alla bellezza intrinseca che tutte queste materie hanno quando si studiano in libertà, appassionarsi, dicevo, alla lingua sarebbe ancora una proposta molto moderata e realizzabile in seminario anche da un vescovo timido. Ma come le avrei chiesto poco se le chiedessi solo questo.
E come vorrei parlarle anche di tutti gli oppressi e come vorrei non dover lasciare ogni speranza nel suo coraggio. Non nel suo, quello materiale, che le è mancato tante volte, ma in quello che lo Spirito Santo aveva certo il potere di infonderle ieri l'altro anche se passava per un canale ben vile quali erano le mani di Fiordelli Pietro, calunniatore di preti che non ha mai visto in viso. Io credo fermamente che lo Spirito Santo che lei ha avuto sia il medesimo che infiammò 300 anni di vescovi martiri a opporsi fieramente al potere civile e rifiutarne le leggi e se oggi i vescovi hanno paura delle multe di 40.000 (Si riferisce al vescovo in treno?) lire e ne portano il lutto non è che abbia perso calore il soffio dello Spirito, ma è perché non sono stati degni i vasi (scusi il vocabolo, ma è biblico). Lo sia dunque lei, e siccome lo Spirito è sempre il solito se ne vedrà delle belle.
Si vedrà Enrichino, l'uomo che non avrebbe fatto male ad una mosca e che per non guastarsi con nessuno si guastava con tutti, si vedrebbe Enrichino diventare Enrico il grande, schierato con gli oppressi per partito preso, battagliero, inflessibile, mai zitto, mai prudente, mai pago di soluzioni intermedie, mai impietosito per i signori (son pecorelle anche loro poverini), mai timoroso di perdere quel posto che la Chiesa gli ha dato, ma che la Chiesa non gli può più togliere perché è ormai vidimato da un Sacramento.
Che sogno! Ma creda, ora, quando dicevo oppressi non pensavo a me, né a Borghi , né a don Divo, noi stiamo bene così e temiamo la protezione dei forti come un segno dell'abbandono di Dio. Parlavo invece degli analfabeti e semi-analfabeti, operai e contadini, e non chiedevo pietà per noi, perché valiamo più di coloro che ci opprimono e quindi non saremo mai veri oppressi veri ma chiedevo pietà e solidarietà per quegli infelici che non sono capaci di intendere il valore santificante della ingiustizia subita, a cui la Croce non fa bene, ma male. E ora la saluto con affetto cristiano e con rancore umano. E inutile che le ricordi il principale dovere dei vescovi secondo la circolare segreta della SCC (Sacra Congregazione del Concilio) la quale obbliga gli ordinari a fare attiva propaganda tra il clero per la diffusione del libro di don Milani. In genere i buoni vescovi usano ordinare a loro spese tante copie quanti sono i loro preti e seminaristi e distribuire le copie nel giorno delle palme insieme al ramoscello d'ulivo. Ma lei, visto che è amico dell'autore può andare anche più in là e donarne una copia per famiglia a tutta la diocesi facendola distribuire dai preti in occasione dell'Acqua santa in cambio di un paniere d'uova. Zani (l'editore) sarà lieto di farle condizioni di favore e lei con la vendita delle uova si troverebbe coperto. Un abbraccio affettuoso suo
Lorenzo Milani
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Anche la Gina se ne è andata insieme ad un pezzo della nostra storia. Non riuscirei ad aggiungere parole se non fosse che qualcosa di imperativo, dentro di me, me lo imponesse di forza. Alla Gina abbiamo voluto bene. Ha rappresentato fino in fondo quell'ideale alto di donna del popolo semplice di Barbiana.
Lettera del 1 ottobre 1958
Caro Enrico, tempo fa fui trattato come un pellaio da don Bensi, perché non le avevo scritto. E ieri sono stato trattato come un pellaio da don Bensi perché le avevo scritto. Dunque il giusto stava nel mezzo cioè nello scriverle due auguri di circostanza.
Mi son provato a spiegare a don Bensi che stimo sommo spregio il non parlare con uno e sommo affetto il parlargli. E perciò, avendo capito che avevo ecceduto nel silenzio, avevo pensato di romperlo nella occasione festiva dell'ordinazione episcopale dicendole quello che penso. Non l'avessi mai detto. Sono stato trattato come un pellaio per la terza volta perché dire quello che penso non è dire quello che penso.
La verità? Che cosa è la verità? Sincerità? Chi è sincero te, o Enrico? Nessuno dei due. Ne te, né lui, né io. Non siamo sinceri nessuno. La lealtà? parole. La schiettezza? E' una frode peggiore di quella del tacere. In conclusione - mi son provato a dire - facevo meglio se facevo come avevo pensato di fare prima. Cioè tacere. Stare in vetta al monte Giovi e non scrivere a nessuno. Tuoni, fulmini e saette. Ecco l'ultima sciagura: infallibile! tu sei infallibile peggio del padre Perego! e non è poco! E io infelice che dicevo che con i contadini non c'è verso d'intendersi. Colle persone fini invece pure. Andatelo dunque a prendere in culo quanti siete. Ma neanche questa è una saggia risposta. Perché dopo ho visto Serafino (che quando le scrissi l'altra volta non avevo ancora rivisto da due anni) e mi ha commosso il suo tenerissimo affetto per lei e il suo raccontare come ella sia vittima di infiniti nemici e ostacolatori e che conduce una infelicissima vita. Allora ancor più ho desiderato rompere l'ostracismo che le avevo dato. Ma dopo aver lungamente decifrato l'ermeticissimo modo di rimproverarmi di don Bensi, non riesco a dargli ragione, né vedo modo migliore di parlarle da amico se non col fare ciò che ho fatto l'altra volta. Ognuno può dare solo quello che ha. Ciò che ho è quello che penso e mentre sono disposto in ogni momento a ritirarlo e a contraddirlo appena mi sia dimostrato che pensavo male, non sono assolutamente disposto a farmi intimidire da discorsi a pera in cui rigirando le parole e rigirandole si può dimostrare che il vero non è vero e che la verità non esiste o per lo meno che non è alla nostra portata in nessun campo, non solo nel metafisico, ma nemmeno nel campo modestissimo di alcune piccole verità di ogni giorno, che gli infallibili come me si illudono di possedere. Sicché io dovrei concedere che tra il mio modo e il suo di manifestare il pensiero non ci sia nessunissima differenza e che se io mostro i denti ai nemici e il sorriso agli amici sono nelle stesse identiche condizioni di lei che sorride senza la più piccola sfumatura di differenza al calunniato e al calunniatore?
Questo è il gioco dei bussolotti ed io non ci sto perché il mio scetticismo non è ancora arrivato al grado di quello di don Bensi al quale detti il manoscritto del mio libro (Esperienze Pastorali) per chiedergli di togliere tutto quello che non andava bene e che me lo rese dicendo che non togliessi neanche una virgola e che in discussione non si perita di darmi dell'infallibile con sommo spregio o a dire che di tutto quello che è scritto nel libro si può dire esattamente il contrario senza mancare minimamente alla verità perché è vero ciò che io dico ed è vero anche il contrario, tanto in ultima analisi saremo giudicati per l'amore che avremo messo nelle cose.
Ed io ho più di una concretissima prova che don Bensi approva il mio libro perché appunto lo stima opera d'amore. Ma come posso accettare che tra il mio libro e un bacio non ci sia sostanziale differenza perché tutto ciò che è nel libro oltre all'atto d'amore è tutto vanità di vanità, pretesa di realtà che realtà non è, pretesa di sincerità che è frode. Ho rammentato il mio libro perché veramente stimo che il mio modo di vivere, parlare scrivere lettere non ne differisce per nulla. E perché, mentre non pretendo affatto di aver sempre ragione e che le cose che dico sian vere tutte, pretendo però che una ragione debba ben esserci e che una verità esista cui ci si può gradualmente e faticosamente avvicinare. E non solo una verità metafisica, ma anche nelle cose contingenti.
Può essere più santo il Campani (prete confinante con la parrocchia di San Donato) che corre il seminario per raccontare a ciascun seminarista che io son finocchio, che non io che raccolgo l'offesa e taccio. Può essere più santo perché la sua miseria morale e intellettuale lo scusa, mentre nel mio silenzio può annidarsi il veleno sottile dell'orgoglio. Questa è una valutazione che spetta a Dio e che sfugge del tutto a noi mortali. Ma non per questo posso accettare che uno che racconta ciò che sa non essere vero non sia oggettivamente un bugiardo. E uno che racconta ciò che disonora non sia un calunniatore. E uno che non tocca o non fa toccare determinate parti del corpo sia finocchio o prete infame. Queste son quelle che chiamo verità oggettive e per le quali pretendo di cercare l'esattezza dei termini e sulle quali voglio essere illuminato e nelle quali (fatti alla mano, ragioni alla mano) sono disposto a ogni istante a correggere o riformare il giudizio.
Ed eccoci ora all'atteggiamento esteriore. Abbiamo davanti il Milani e il Campani o il Santacatterina (il nuovo parroco a San Donato), o il Biancalani (parroco di S.Niccolò a Calenzano), o il Franceschi, o l'Agresti, o il Centi.... Dobbiamo amarli ambedue egualmente perché son due deboli creature bisognose di pietà l'una e l'altra per i loro grandi (sebbene diversi) peccati. Ebbene, questo uguale amore va manifestato con uguale sorriso? Oppure a uno si manifesta con due secchi colpi al mento educatori e riformatori, all'altro con una qualsiasi manifestazione pubblica di stima non esaltatrice e inorgoglitrice, ma solo rettificatrice di valori oggettivi. Semplice atto di giustizia. Ecco quello che ho chiamato nella mia ultima lettera una vita intessuta di bugie e che stimo diversa dalla mia proprio su questo punto.
Son io dunque sicuro che la mia sia stata intessuta di verità? o mi son forse illuso dl aver trovato la verità, mentre non ho trovato che un po' di spudoratezza malsana? Ripeto che son pronto ad accettare un consiglio (non un sofisma a pera), cioè per es. “guarda nel tal giorno, con questa tal parola, tu hai truffato tanto quanto Enrico per questo e questo motivo”. Può ben essere che questo sia avvenuto talvolta, ma io me ne pento e vorrei che questi miei errori non fossero ricordati e messi in luce per potermene in futuro tenermene lontano, perché sono intimamente sicuro che esista oggettivamente la possibilità di essere sinceri, limpidi come l'acqua limpida.
E se questa possibilità esiste essa coincide con la cosa che più desidero. E mi par lecito consigliarla e augurarla anche ai miei amici. Tanto più che l'esperienza pastorale mi convince ogni giorno di più che senza questa limpidità i preti non risaliranno l'abisso di diffidenza che si sono creati intorno e non saranno mai più accetti alla classe operaia.
E come mai potrò convincermi che questo ideale cui così fermamente credo debba disdire in un vescovo? E quale mai discorso di prudenza, di galateo, di opportunità potrà spiegare come a chi possiede la pienezza del Sacerdozio di Cristo debba essere preclusa la possibilità della pienezza della sincerità di una qualsiasi persona per bene? Ed ecco di nuovo che io dovrei ridere anche di questa lettera con il riso di don Bensi e sentirmi dire: son tutte chiacchiere anche queste. Io penso invece di aver voluto rendere un servizio. Se voi vi divertite a dirle che ho voluto farle un dispetto, andate al diavolo l'uno e l'altro e ricomincerò col silenzio diaccio, mi bastano e avanzano i bambini di Barbiana e non mi sarebbe mai passato per la mente di scriverle se don Bensi non m'avesse fatto capire che ella della mia trascuranza era amareggiato.
Un saluto affettuoso e non si dia pena di rispondermi, ma piuttosto, come l'altra volta si è dato pena di raccontare a don Bensi che io le avevo fatto i dispetti, così oggi si dia pena di fargli sapere che era stato un falso allarme e che invece di dispetti si trattava di burbere carezze.
Lorenzo Milani sac.
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"LETTERA A UNA SPOSA"
Questa lettera è stata inviata da don Lorenzo ad una sposa nel giorno delle sue nozze. I nomi sono stati cambiati.
Barbiana 26-4-1956
Cara Giovanna, il motivo principale per cui un cristiano prende moglie è quello d'aver sempre tra i piedi una donna che gli ricordi giorno per giorno gli alti ideali per cui egli ha promesso di vivere e dai quali gli impegni di lavoro rischiano giorno per giorno di distrarlo.
Ecco perchè scrivo a te le cose che mi preme che Renato tenga presenti lungo il corso della vostra vita comune e della sua professione di medico.
Conserva dunque gelosamente questa lettera nel cassetto del tavolo di cucina e rileggila quattro volte l'anno, cioè al principio di ogni nuova stagione, per farci sopra l'esame di coscienza tuo e quello di tuo marito. Appena avrai una tua casa affacciati alla finestra e guardati un pò intorno.
T'accorgerai che il mondo è mal messo. Dio l'aveva creato preciso, aveva fatto gli uomini tutti poveri e tutti ignoranti. Gli uomini invece, non si sa come, si sono accordati per tirar su qualche decina di persone molto ricche e molto istruite e lasciar tutti gli altri come Dio li aveva creati.
Da questa violazione dell'ordine naturale son nati infiniti mali che non starò qui a elencarli perchè immagino che tu ne possegga già un chiaro concetto. Vedrai poi dalla finestra della tua casa, che in questo mondo infelice ricchezza e istruzione viaggiano sempre a braccetto. Chi è più istruito guadagna più quattrini. Chi ha più quattrini fa più studiare i suoi figlioli. E via di seguito in un circolo chiuso.
I signori ti diranno che non è vero e che un contadino guadagna più d'un professore. Ma tu non li credere. Rispondi loro: “Se è così andate a fare i contadini”.
Ma sarà meglio del resto che coi signori tu ti abitui a non parlare mai. I loro discorsi non sono mai seri, nè necessari, nè c'è mai verso d'impararne qualcosa.
Dicevamo dunque che ricchezza e istruzione vanno sempre a braccetto, ma (oh immensa grazia che Dio t'ha fatta) tu hai ora a braccetto un uomo che smentisce questa regola. Una di quelle rare eccezioni che perfino questo sbagliato e ingiusto mondo riesce talvolta a partorire.
I1 tuo Renato è figliolo d'un povero operaio. Anzi un pò meno che figliolo d'un operaio. E' figliolo della vedova d'un povero operaio. Anzi un pò meno che figliolo d'una vedova. E' uno dei quegli infelici cresciuti nell'inferno dei figlioli delle vedove dei poveri operai: il collegio. Un santo collegio fondato da un santo, ma non per questo meno un inferno di sofferenza.
Queste cose non sono ricordi tristi che bisogna tentar di scordare in questo giorno di gioia. Sono anzi le glorie della tua nuova famiglia. Le cose di cui dovrai vantarti ogni giorno tra le tue amiche. Titoli nobiliari che illustrano la tua casata.
Eppure questo morto di fame che hai sposato porta accanto al suo nome l'attributo di “dottore”.
Animale rarissimo come t'ho detto. La somma istruzione nella somma miseria.
C'è qui sul monte Giovi una ventina di ragazzi che non son mai stati a scuola. Non son stati a scuola perchè avevano da badare le pecore. Le pecore han fatto agnelli, cacio e lana. E un fattore ha spartito. Il mezzo che è restato a questi ragazzi è bastato appena appena per non farli morir di fame. L'altro mezzo, che è partito verso un palazzo di Fírenze, unito a molti altri mezzi è bastato per mantenere agli studi il Signorino. Il lavoro più pesante che egli abbia dovuto fare nel mondo è stato quello d'alzare la sua penna stilografica elettronica. La sua mente preziosa è un pozzo di scienza, i poveri che vanno da lui gli sganciano altri quattrini e lo rispettano.
Nessuno ricorda o nessuna sa che per far lui dottore questi miei bambini son rimasti analfabeti e bestiole tra le bestiole.
Giovanna. Come lui son quasi tutti i dottori fuorchè il tuo dottore.
Gli operai italiani versano il loro sangue in 400.000 infortuni sul lavoro l'anno e infinite malattie professionali e non ricevono nessun utile dal loro lavoro e dal loro martirio non possono far studiare i loro figlioli. Ma la gran maggioranza degli studenti universitari studiano alle spalle del loro sudore, del loro sangue, del loro analfabetismo.
Se quel diploma di laurea potesse parlare allora si vedrebbe i dottori travestirsi da contadini e strisciare furtivi lungo i muri, a capo basso, intimiditi dallo sguardo d'ogni povero che incrociassero per via. Il tuo Renato in quel giorno non avrebbe invece da darsi nessuna pena. Il suo titolo è titolo incontaminato. Per ora.
Ma badaci te, cara, fino a oggi è andata bene. Da oggi in poi la gloria della tua casa è attaccata a un filo. Siine tu la custode. Ogni giorno amici, colleghi, giornali, libri congiureranno per corrompere il tuo Renato, farne un dottore come tutti, farne un animale simile a loro.
Tu sola puoi salvarlo da questo disonore, ma bisogna che tu te ne faccia l'obbiettivo di tutta la vita, che tu sia costante in questo proposito, pronta al martirio, a tagliare senza pietà anche nel vivo delle tue stesse vanità e ambizioni.
In pratica? come faccio a prevedere le occasioni in cui ti troverai? Ti accenno qui due o tre di quelle che mi vengono in mente. Per le altre bisognerà che tu ti arrangi da te.
P. es. non farti dare del tu dalle spose dei dottori, dei maestri dei farmacisti del tuo paese. Tienle lontane dalla tua casa. Spia ciò che leggono e come vivono, ma solo per esser sicura di non leggere mai ciò che leggono loro e di non vivere mai come vivono loro.
Quando le cose v'andranno un pò per il verso e comincerà ad esserci anche qualche soldo d'avanzo non sognare elettrodomestici per la tua casa. Pensa piuttosto ad attrezzare un ambulatorio ricco di tutto ciò che può alleviare ai poveri spese e sofferenze.
Cercati le benedizioni dei poveri non tanto con le tue elemosine quantocon il vivere povera più di loro.
Quando il tuo Renato, timoroso di non averti fatta abbastanza felice, vorrà portarti a spasso per il mondo o in villeggiatura sii tu invece la prima a proporgli invece di comprare i libri di scuola ai figlioli delle vedove perchè diventino anche loro come lui i dottori dei poveri. Quando origliando all'uscio dell'ambulatorio sentirai il tuo Renato dire: qui ci vorrebbe custodimento, fa che nessuno possa dire di lui che ordinava bistecche ai poveri senza donarle. Non permettere che il tuo Renato si faccia scrupoli di solidarietà con gli altri dottori sulle tariffe.
Le tariffe preparale te giorno per giorno proporzionate solo alle tue necessità quotidiane scrupolosamente austere, scrupolosamente livellate colle necessità di casa delle spose operaie che vivono intorno alla tua casa.
Non permettere mai che il tuo Renato aderisca a scioperi contro la mutua.
La parola sciopero è sacra ai poveri, unica loro arma contro i signori. Stona in bocca ai signori dottori usata per combattere l'organizzazione della sofferenza dei poveri.
Ecc. Ecc. Ecc.
Ora non mi viene in mente altri esempi. Del resto spero che mi avrai già capito. Che farai che la tua casa sia povera e benedetta dai poveri e Dio penserà a tutto il resto. Se i poveri saranno con te, anche lui sarà con te e se Lui sarà con te di cosa hai paura? Camperà i tuoi figlioli e assicurerà il loro avvenire ben più sicuramente che un conto in banca o una polizza di assicurazione.
Se la tua fede è cosl poca da non credere queste semplici cose, cosa perdo tempo a parlare con te?
Ricevi ora i miei auguri affettuosi e nessuna benedizione.
Hai avuto stamani la benedizione del Padre che val più della mia. Cercati ora le benedizioni dei poveri che valgono più di quella del Padre e poi dormi serena tra quattro guanciali
tuo Lorenzo |
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