Cambiare la scuola si può
“Chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara”
INTERVENTO DI MARIA ZOCCHI AL CONVEGNO DEL 29 MAGGIO 2010
TEATRO GIOTTO - VICCHIO
Sono un’insegnante di lettere di una scuola secondaria di secondo grado e svolgo la funzione strumentale “integrazione studenti stranieri” nella mia scuola, l’ITI L. Cobianchi di Verbania. Nelle statistiche della nostra scuola, gli studenti stranieri sono 87, su 1390 studenti, poco più del 6%.
Siccome le parole sono importanti, vorrei riflettere sul significato di questo termine: straniero deriva da extraneus, e successivamente da strano, colui che viene da fuori: sul dizionario il contrario di questo termine è romanus, domesticus, proprius.
E’ quindi con un grande disagio che utilizzo questo termine: come insegnante mi offende l’idea che si possa anche solo ombreggiare la possibilità di tenere in considerazione diversa gli studenti all’interno della stessa classe: tutti i ragazzi diventano “nostri” e il termine “straniero” sembra introdurre un diverso livello di coinvolgimento affettivo tra i nostri studenti, cosa che naturalmente nessuno di noi vuole sottoscrivere. Inoltre, sempre analizzando i dati delle statistiche scolastiche, consideriamo stranieri tutti gli studenti non in possesso di cittadinanza italiana: conosciamo tutti la situazione paradossale degli studenti di seconda generazione, che in alcuni casi vivono qui da molti anni, sono perfettamente inseriti nel contesto sociale e scolastico italiano, hanno amici e amiche italiani, parlano perfettamente la nostra lingua, si considerano appartenenti alle nostre comunità, ma sono definiti “stranieri”.
Questo termine pone una prima barriera ideologica all’integrazione nella classe: le difficoltà di ordine linguistico cui di solito si accompagna spaventano i genitori, gli insegnanti, i politici. Porta con sé lo stereotipo dello studente che fatica, che non riesce a raggiungere gli stessi risultati dei compagni, anche di quelli svogliati e non sempre preparati. Si costruisce l’immagine (pre-giudizio) di uno studente che, indipendentemente dal suo vissuto, dalle sue doti intellettuali e dalla sua motivazione allo studio, è straniero, quindi necessariamente predestinato all’insuccesso scolastico. Insomma, è un peso nell’economia della classe.
Così, poco alla volta, si è incrinato il principio del Diritto all’istruzione di cui ogni ragazzo è portatore, secondo quanto sancito dalla Costituzione e poi dalla Convenzione internazionale dei Diritti dell’Infanzia dell’89 e poi dal Consiglio dell’Unione europea (Bruxelles, 2009)...
E questo contrasta con la nostra etica professionale.
Che fare?
Nella pratica quotidiana, ogni scuola si è attrezzata all’accoglienza e all’integrazione degli studenti di recente arrivati in Italia, che io preferisco chiamare “internazionali”; si offrono risposte significative, quali i corsi di insegnamento di lingua italiana, di sostegno allo studio, l’intervento di mediatori linguistici: tutti interventi che però spesso rimangono risposte “in emergenza” e cozzano contro alcuni ostacoli strutturali della scuola italiana, primo tra tutti il problema della valutazione.
Purtroppo la normativa in Italia non fornisce risposte alle necessità che i docenti individuano sul fronte dell’integrazione degli studenti non italofoni.
Il riferimento normativo più esauriente è contenuto nel documento dell’ottobre 2007, firmato dal ministro Fioroni, che indica “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri”; l’ultimo è la circolare ministeriale del gennaio 2010 che, a fronte della richiesta sempre più forte di sostegno didattico e di organizzazione sistematica di attività di integrazione focalizza l’attenzione su una misura palliativa per la soluzione del problema: propone di stabilire un tetto del 30% per classe all’iscrizione degli studenti con cittadinanza non italiana. Gli studenti stranieri quindi possono entrare nella nostra scuola e sedere a fianco dei ragazzi italiani, ma a condizione che siano in modica quantità, per non compromettere quella che viene nel documento definita “una istruzione di qualità”. Questa attenzione alla qualità però non si orienta a accogliere tutti gli studenti, perché, quando entra nel merito degli interventi volti a tutelare gli studenti internazionali, più bisognosi di attenzioni, le indicazioni del MIUR si sbiadiscono, si entra nel vago e si accenna, senza che poi sia data concretezza nelle successive circolari, ad una vaga disponibilità di fondi da destinare alle attività già sperimentate nelle scuole con risultati positivi. “Si suggeriscono...misure” con l’indicazione di fare ricorso a non meglio specificate “risorse professionali della scuola”. Sembra che chi scrive non sia al corrente dell’imminente avvio della riforma nella scuola superiore, che prevede tagli di ore e di personale: in tutte le scuole si stanno riformulando le graduatorie interne in vista della diminuzione di organico che colpirà tutte le scuole a partire dal prossimo anno scolastico.
La scuola italiana, che fino ad ora e con risultati incoraggianti è sempre stata aperta all’accoglienza e all’inclusione di chi può incontrare difficoltà nell’apprendimento per diverse motivazioni, che spazino dagli handicap fisici, psichici, a disturbi dell’apprendimento o del comportamento ora si volta dall’altra parte: rispetto alla necessità di investire sulla integrazione linguistica e quindi sociale degli studenti non italofoni la risposta dell’istituzione scolastica è quella di chiudere, di proporre contingentamenti degli studenti più fragili.
Se analizziamo i dati relativi all’insuccesso scolastico, la situazione che emerge è davvero preoccupante: riporto a titolo di esempio il quadro emerso nella mia scuola, alla fine del primo quadrimestre: nelle classi di biennio la percentuale di studenti con almeno un’insufficienza in pagella è del 70%. Il dato è allarmante e segnala che qualcosa non funziona, indipendentemente da tetti e contingentamenti proposti dall’alto: è assolutamente necessario adottare metodi efficaci per rispondere al cambiamento sociale, fare la fatica di comprendere i nuovi adolescenti, motivare al valore della cultura.
E questo lo si può fare solo modificando le modalità di insegnamento. La lezione della scuola di Barbiana è da riprendere. Nelle nuove classi, eterogenee per formazione e per motivazione, non si può continuare a proporre la lezione frontale come unica modalità di insegnamento: è urgente moltiplicare i punti di vista e applicare tecniche di apprendimento cooperativo, per portare i ragazzi e le ragazze a confrontarsi, attraverso la collaborazione e l’ascolto di esperienze e vissuti diversi, con l’attenzione all’uso di lingue diverse e la consapevolezza dell’esistenza di culture diverse. Solo così potranno formarsi come cittadini di una comunità che vive la bellezza delle differenze e non si impoverisce nella chiusura al nuovo.
Invito quindi tutti coloro che si impegnano nella scuola sul versante dell’accoglienza degli studenti internazionali a creare un luogo di condivisione di pratiche, di materiali, di esperienze e progetti , facendo riferimento al Centro di Formazione don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana per creare una rete efficace nel proporre interventi, progetti, attività, tavoli di discussione che servano a stimolare chi crede nella possibilità di riformare davvero la scuola.