Scuola di Barbiana
Edoardo Martinelli
EDOARDO MARTINELLI
allievo del Priore di Sant'Andrea a Barbiana
GENNAIO 1990
l'arrivo
Ho conosciuto don Lorenzo Milani nell’estate del 1964. Non avevo ancora 14 anni.
In questo colloquio Lorenzo mi chiese tante cose e in particolare mi fece parlare a lungo della mia famiglia. I miei genitori erano contadini che, in caso di bisogno, avevano la capacità di trasformarsi in venditori ambulanti. Così era nella tradizione degli abitanti della Lunigiana. Un’area povera all’estremo nord della Toscana. Questo fu anche il motivo per il quale emigrammo a Rho, nella provincia di Milano. Mio padre costruì, in un primo tempo, una baracca a ridosso delle mura del campo sportivo, come altri emigrati. Poi gli fu assegnata la prima casa Fanfani[1].
Il Priore si commosse quando gli descrissi gli spazi e il numero dei miei familiari. Eravamo nove, solo tra fratelli e sorelle. Poi c’era il babbo, la mamma e a volte veniva a stare da noi anche la nonna Ines. Dormivamo e studiavamo come si poteva.
Parlavo e lui appoggiò la sua testa sulla mia. Sul momento rimasi sorpreso, perché mi pianse letteralmente addosso. Ero perplesso, ma anche impaurito.
Il suo comportamento e le domande che mi aveva fatto diventarono però motivo di una lunga riflessione. Era così diverso dagli altri preti che subito ti chiedevano: “Atti impuri? Da solo? Con altri?”
Tornato a casa, le sue domande le rigirai a mio padre, a mia madre e ai miei fratelli. Per la prima volta partecipai in modo cosciente alla storia della mia famiglia.
Diciamo che fu come se si fosse improvvisamente aperta una breccia in me. Non ebbi subito voglia di tornare. Non avevo ancora capito. Ma qualcosa avevo intuito. Covai per quasi un anno intero. Poi le difficoltà concrete, la bocciatura e le sollecitazioni dei miei familiari, mi riportarono sul monte Giovi.
Faccio parte del gruppo storico delle lettere: ai giudici e alla professoressa. Il periodo più ricco della nostra scuola. Quello che tutti legano alla tecnica umile della scrittura collettiva e ai ragazzi bocciati.
Il mio è il punto di vista di chi ha vissuto il privilegio di essere stato suo allievo, non per nascita, ma per scelta. E di averlo quotidianamente accompagnato fino all’ultimo minuto.
Il Priore e Barbiana, in un primo momento, furono per me una necessità. Entrai a far parte di un popolo, che mi consentì di crescere e di trovare una forte identità. Come spiegare, con parole, tali relazioni?
Il Priore sembrava vivere solo un rapporto di tipo comunitario. Ma poi, all’improvviso, ti prendeva da una parte e ti metteva in contatto con la tua interiorità. Ascoltava e poi toccava delle corde … che hanno suonato sempre! Senza sentirsi obbligati ad appartenenze particolari. Ti liberava di tante tue paure, timidezze e oserei dire odi, risentimenti, rancori.
Ma quel livello di comprensione pesava anche. Diciamolo!
Si viveva a Barbiana in un’interazione di sentimenti umani e passioni che portavano a sublimarsi, a staccarsi dalla mediocrità della vita dei molti. Si percepiva il senso vero della libertà che è partecipazione. Le amicizie tra noi erano profonde. C’era forte complicità tra me e il Biondo, oppure Mauro o gli altri ragazzi.
Quando penso a Barbiana trovo ancora energia. Molti se ne sono andati. Quel mondo, purtroppo, non esiste più. Fa ormai parte della mia vita interiore e del mio immaginario. Però lo spirito del Priore è presente ovunque. E’ dentro di noi. Dobbiamo solo tirarlo fuori.: “… c’è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore.
Una gran parte dell’umanità la chiama legge di Dio, l’altra parte la chiama legge della Coscienza[2]”.
Il suo era un carattere allegro e scanzonato.
educazione sessuale
Ricordo una lezione che mi stupì molto per il linguaggio a volte sboccato a cui non ero abituato. Era una allegra e divertente lezione sulla sessualità, sui cromosomi e la trasmissione genetica. Era d'estate, perché eravamo all'aperto, sotto il pergolato. Dopo averci spiegato la genetica e i cromosomi, ci disse: “Oggi, ragazzi partoriremo un uomo”.
Utilizzò anche in questo caso la tecnica del fogliolino[3]. Ognuno doveva scrivere un attributo da dare al nascituro. Al termine di tali descrizioni abbiamo diviso i fogliolini per gruppi omogenei. Erano lunghe file di nasi, di bocche, di occhi e capelli. Chi lo voleva biondo, chi moro, chi alto, chi basso, chi uomo e chi donna, ecc… . Nacquero diversi monticini, selezionati secondo logiche d’appartenenza. Ogni monte veniva messo in una scatola. Dalla scatola il Priore, girandosi da una parte e ridendo, estraeva un solo fogliolino alla volta dicendo:“Non guardate ragazzi che il babbo e la mamma …”.
Disegnò poi su un grande foglio il “nuovo nato”. Era maschio e già adulto.
Un professore presente rimase colpito. Non conosceva i metodi didattici del Priore, che si generavano sul momento attraverso domande e risposte. In modo anche troppo invadente, per l’eccitazione provocata da quella modalità inusuale di far scuola, ingenuamente chiese: “Padre, quante ore dedicate all’educazione sessuale?”
Ci fu un attimo di silenzio. Non era consentito agli estranei di interrompere la lezione. Di solito uno che si comportava così era buttato fuori in malo modo.
Il Priore, quella volta e con un bel sorriso, spiegò il suo criterio nello stabilire l’orario delle singole materie con questa espressione colorita: “Prima abbiamo pesato un uomo. Poi abbiamo pesato il suo arnese. Quindi abbiamo fatto le dovute proporzioni”.
la scuola
Il giorno in cui mi ribellai per il poco tempo disponibile a favore delle materie scolastiche, mi rispose: “Non ti preoccupare. Qui non boccia nessuno!”
A nulla valse ricordargli che ero lì per riparare materie come Storia e Italiano. “La mia professoressa m’interrogherà sulle battaglie di Custoza ” e lui impassibile: “Se non finisci le Medie quest’anno le finirai l’anno prossimo. Cosa te ne importa?”
Così imparai matematica applicata durante le lezioni d’anatomia. Studiai anche le battaglie di Custoza, ma da solo, perché dovevo prepararmi agli esami.
Feci, l’anno dopo, un’indigestione di Storia, quando il Priore coinvolse l’intera comunità nella stesura della Lettera ai Giudici, in polemica con alcuni cappellani militari. Lettera che non gli risparmiò una condanna da parte dei nostri tribunali per apologia di reato.
Le istituzioni avevano male interpretato Lorenzo. Lo giudicarono un cattivo maestro. Condannarono i criteri con i quali c’insegnava la storia del Novecento.
I modi, attraverso i quali il nostro maestro sviluppava la didattica, erano legati al “qui ed ora”. Prendevano forma dalla cronaca di tutti i giorni, che leggevamo sul giornale o che ascoltavamo narrata dai visitatori che salivano a trovarci.
La nostra scuola faceva riferimento ai pensatori antichi, Socrate per esempio, ma poi il Priore non citava mai le fonti. Non avrebbe mai iniziato una lezione dicendo: “Oggi facciamo la fisica e la metafisica d’Aristotele”.
Eppure erano lì, alla radice del suo insegnamento, la causa formale, materiale, finale ed efficiente. Il tutto diluito nel linguaggio dei montanari del Mugello e dentro il loro processo d’emancipazione.
Di certo ci faceva studiare Camus e Saint Exupéry in lingua originale.
Letture d’obbligo erano il Vangelo, il Critone, il Fedone, l’Apologia di Socrate, l’Autobiografia di Gandhi, la “Lettera del pilota d’Hiroshima”, “Il flagello della svastica”, “Le lettere dei condannati a morte durante la Resistenza” e le “Lettere dal carcere” di Gramsci.
Il Priore aveva un amore profondo per quelli che definiva i santi laici. La loro coerenza tra il pensare e l’agire lo commuoveva. Erano loro la nostra coscienza critica prevalente. Tale pensiero ci guidava e univa gli eventi quotidiani alle grandi idealità. Il Priore lo ribadirà spesso, anche ironicamente, ai superiori. Lo farà per difendere il suo modo, spesso male interpretato dai confratelli, di avvicinare l’allievo per mezzo di espressioni colorite:“Non è nelle parolacce il mio “metodo”, me ne vergognerei. E’ nella cruda precisione e nella cruda aderenza della parola al pensiero” [4].
Il suo era un un richiamo alla coerenza, tra ciò che diciamo e facciamo. Un metodo attivo, del saper fare. Capace di formare il pensiero autonomo, di consentire di studiare anche da soli o a piccoli gruppi. Imparando e insegnando. “Sempre, ci diceva, tutta la vita ”.
Se, avendolo criticato in passato, si scoprissero oggi tante sue ragioni, la sua voce, dentro di ognuno di noi che lo abbiamo amato, ironica ci risponderebbe: “Sei d’accordo con quello che penso oggi, che ho detto ieri o che scriverò domani[5]?”
Per molti “specialisti della scuola” il modello Barbiana ha rappresentato improvvisazione, laboratorio povero o soltanto eliminazione del voto e del registro.
Spesso, i radicali difensori di don Lorenzo Milani hanno innalzato la sua esperienza, indiscutibilmente eroica, fino a tradurla in mito ed ucciderne l'applicabilità del pensiero.
Tutti lo sappiamo che il Priore non sarebbe stato interessato ad essere collocato sopra un piedistallo o dentro un tabernacolo. Eppure, a nulla sono valse le nostre testimonianze che sempre hanno ricordato che, nell'ultimo periodo della sua vita, ci ripeteva: “Da morto mi esalteranno, ma voi difendetemi da qualsiasi forma di mistificazione!”
E' luogo comune, per chi critica l'esperienza di Barbiana, affermare che essa ha riversato nella scuola l'egualitarismo senza gratificazione. Il solo colpevole e responsabile della caduta di cultura nel nostro paese. Il motivo per il quale sarebbe stato scritto “Lettera a una professoressa” si legherebbe esclusivamente alla bocciatura di un ragazzo.
Molti parlano della grandezza spirituale del prete di Barbiana definendolo “quel gigante della chiesa”. Ma poi finiscono per utilizzare le sue proposte pedagogiche per definire il limite obiettivo che rende di fatto impraticabile il modello della sua scuola. Ipocriti!
In entrambi i casi, sia che si esalti o sminuisca la sua figura, si isterilisce un’esperienza formativa basata sul dialogo tra il maestro e l’allievo. Un elemento che considererei invidiabile, dato lo stato di conflitto esistente oggi.
Queste critiche superficiali non hanno voluto, né saputo percepire la realtà. Sono indirizzate contro il Priore di Barbiana perché vedeva, nella scuola di allora, uno strumento di classismo e d'indottrinamento. Una non scuola fallimentare in partenza perché incapace di costruire nell’allievo il pensiero critico. Incapace di dare le competenze utili a condurre un ragionamento in cuiu le idee siano connesse e coerenti: lo schema logico.
E’ in tale intelaiatura che l'educatore si trasforma da trasmettitore delle conoscenze in costruttore di processi educativi e di contesti flessibili.
In poche parole l’accesso alla conoscenza si fondava, nella nostra scuola, non sulle nozioni lette o estrapolate dal libro di testo, ma sul più elementare strumento: la realtà.
Sarà la Scuola a costruire l’ultimo pezzo di strada che collegherà la canonica di Barbiana con il paese di Vicchio. A progettare l’acquedotto per i parrocchiani della chiesa di Sant’Andrea. A costruire la casa alla vedova di un operaio morto sul lavoro. E’ ancora la scuola a produrre laboratori d’uso pubblico. I suoi locali resteranno sempre aperti e disponibili. Notte e giorno.Chi, di noi allievi, non ricorda, con forte emozione, l’automobile d’Adele[6], smontata e rimontata, solo perché qualcuno aveva espresso il desiderio di conoscere il motore?
Come dimenticare le lezioni d’anatomia, iniziate il giorno in cui, crollando il pavimento di un
locale prossimo alla chiesa, fuoriuscirono due scheletri[7]?
Ricordo che il Priore ci spiegò che, dalla forma e dalla capienza delle anche, si sarebbe capito se erano maschi o femmine. Ordinò di andare a prendere il metro e il calibro. Alcuni allievi si mossero in gruppo, con un fare quasi silenzioso, verso l’officina. Le urla erano rare. Capii subito che esistevano regole rigide e condivise.
Noi educatori sappiamo quanto l’autonomia e la libertà non si leghino a fronzoli piccolo borghesi. Il Priore ammetteva interruzioni che avessero solo la funzione d’apprendere. La verità era oggettiva e dovevamo cercarla insieme senza competere. Più tardi ci spiegò che la verità è storica, forse irraggiungibile.
Misurando il bacino, era stato scoperto che si trattava degli scheletri di due donne. Una giovane e una anziana. Dalla capienza cranica dovevamo ora capire l’epoca in cui erano vissute. Una lezione che non finiva mai.
Di domanda in domanda, Lorenzo ampliava il cerchio dei nostri interessi. Provavamo un così grande piacere a seguire questo costante filo logico che accompagnava sempre, trasversalmente, le materie. Infatti il nostro maestro, che privilegiava l’approccio globale, non rispettava mai gli orari o la progressione lineare delle singole discipline. Non disgiungeva mai la cultura umanistica da quella scientifica.
Questo filo logico ci accompagnava nelle nostre discussioni interminabili. Tra di noi e con gli adulti. Anche fuori orario scolastico. In paese e a casa. Nel tempo libero o meglio liberato. Perché, spesso, la scuola si spostava all’estero e la chiamavamo vacanza. Era anche il nostro esame di maturità[8]. Guai a considerarla semplice svago!
Poche ossa furono sufficienti ad apprendere come andare sui vocabolari, sui testi d’anatomia e fisiologia. Materie inesistenti alla scuola media di allora. Addirittura, a Barbiana era più importante sapere usare il vocabolario che imparare una parola in più. Per questo era cosa normale interrompere la lezione per correre dietro alle origini, alle etimologie delle parole più astruse e sconosciute.
Cercavamo sui dizionari il loro significato. Ampliavamo i contenuti aprendo l’atlante storico e geografico. Facevamo le dovute associazioni. Sfogliavamo la Treccani oppure prendevamo i libri dagli scaffali che circondavano la stanza principale della canonica.
Era questo il suo modo d’insegnare. E noi così imparavamo a leggere, scrivere e far di conto. Da un motivo occasionale arrivavamo a comprendere e a usare gli strumenti didattici. Un processo formativo che si autogenerava e scaturiva direttamente dalle esperienze nostre e dei nostri genitori. Si legava, principalmente, al bagaglio di conoscenze necessarie per crescere e diventare capaci di partecipare alla vita sociale e politica. Era un tempo compreso tra il passato e il futuro, ma anche funzionale alla vita quotidiana: “La Storia di questo mezzo secolo era quella che sapevo meglio. Rivoluzione russa, fascismo, guerra, resistenza, liberazione dell’Africa e dell’Asia. E’ la storia in cui sono vissuti il nonno e il babbo. Poi sapevo bene la storia in cui vivo io. Cioè il giornale che a Barbiana leggevamo ogni giorno, a alta voce, da cima a fondo.
Sotto gli esami due ore di scuola spese sul giornale ognuno se le strappa dalla sua avarizia. Perché non c’è nulla sul giornale che serva ai vostri esami. E’ la riprova che c’è poco nella vostra scuola che serva nella vita[9]…”
I suoi più grandi nemici erano il consumismo e le mode! Secondo lui la cultura consumistica non interpreta solo i desideri, ma provvede a crearli all'infinito, a trasporli in sempre nuovi e fittizi bisogni, trasformando la realtà in un immenso ipermercato. L'antica cultura contadina, invece, sarebbe compartecipe dei valori veri e dei bisogni essenziali che esprime ed interpreta. In entrambi i casi l'alienazione impedirebbe, però, l'uso cosciente della parola:
“Voi li volete muti e Dio vi ha fatti ciechi![10]”
Nel primo caso non esisterebbe porta d'ingresso alla Vera Cultura. Nel secondo si possederebbe, invece, un abito mentale capace di aprire qualsiasi via d'accesso alla Conoscenza, che non è solo l'istruzione. Per questo motivo il supporto al suo progetto educativo veniva direttamente dalle famiglie contadine, sobrie e non permissive. O meglio ancora, dai bisogni che la loro cultura austera esprimeva. Era questo l'ambiente nel quale, il Priore di Barbiana cercava il suo Stato di Grazia o quello che per noi, comuni mortali, è il Libero Arbitrio.
la fede
Questa soglia, che si apre ad itinerari bui ed incerti, dove l'uomo e la divinità si incontrano, è ormai invisibile agli occhi dell'uomo post moderno! Il Dio che redime è reso muto. Solo al dio quattrino spetta il compito di smorzare l'angoscia primitiva, che va ad alimentare quella sana follia che in noi ha sempre abitato.
Purtroppo l'uomo occidentale, assente alla gioia o al dolore e ben nutrito, ha perso ogni rapporto con le vecchie necessità. La sua stessa vita è riempita da logiche immutabili e funzionali solo ai meccanismi che sostengono la Società dei Consumi. Così, senza più il surrogato della tradizione, il ricco si appresta ad abbandonare la protezione dei valori umanistici e a concentrare ormai la propria a ttenzione a valori più tecnici e più materiali. Ormai omologato, è incapace perfino di commettere errori o peccati volontari, perché il suo agire è solo consumare. Ma ben presto, quando avremo assaporato completamente tutti i prodotti, stipulando miseri compromessi di sottomissione alle mode e ai media, scopriremo che questo falso paradiso non porterà la felicità promessa. L’uomo che si nutre di consumismo è giunto all’ultimo atto della sua tragedia e lo vediamo. Per sfuggire all'angoscia di trovarsi nudo di fronte ad un incerto concetto di Dio, si perderà completamente nel non senso, di cui è succube il nostro tempo. Mentre il vero cristiano, direbbe il nostro Priore, rimane vincolato, per quanto passionale, alle logiche di senso e alla ciclicità dell'eterno ritorno, perché il suo obiettivo è vivere e non possedere. E lo dice apertamente nella lettera al compagno di tante battaglie, l'amico comunista: “Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno ... finalmente potrò cantare l'unico grido di vittoria degno d'un sacerdote di Cristo: Beati i ... fame e sete.
Lorenzo era un uomo di fede e per questo capace di ribellione!
Nella sua breve vita non è mai stato interessato a condividere i comportamenti di una chiesa preconciliare, compromessa con i poteri forti, il cui dramma esistenziale era solo un falso obiettivo, un’inutile perdita di tempo o, meglio ancora, un orpello dell’intellettualità. Spingere se stessi oltre il limite della realtà visibile e tangibile, intesa nella sacralità dei bisogni più essenziali del montanaro, del contadino o del giovane tessitore pratese, significava: predisporsi alla fede come Dono.
Per Lorenzo sono solo l’Amore, ovvero Dio, e il Peccato, ovvero il non-amore, a creare, con la Povertà, le condizioni per lo Stato di Grazia necessario, al sacerdote come a chiunque altro, per ricevere la fede o per comprendere e svolgere laicamente la propria missione. Non si perde a lungo a rispondere agli enigmi: Chi sono, da dove vengo e dove vado? Per lui l’importante è amare.
Dirà, di fronte alla morte, nel suo testamento lasciato a noi ragazzi:“Ho amato più voi che Dio, ma spero che Lui non badi a queste sottigliezze!” V’è in queste parole una forza di provocazione e una tempesta di sentimenti che dimostrano il senso vero d’una missione incarnata e sentita.
“Cercare, diceva Socrate, è già il Trovare. Domandarsi è già il Rispondersi”. Ma è altrettanto vero che per quanto cercherai, non troverai con la sola ragione risposta né ai drammi, né agli enigmi. E' inutile stare a questionare sulla vera Fede. Se è veramente un dono così inintelligibile, nella sua indefinibile casualità, la s'incontra solo agendo e percorrendo i sentieri tortuosi e polverosi della vita. Di cui condividiamo tutte le contraddizioni e le manchevolezze alle quali siamo esposti sin dal primo vagito. Da Lorenzo dato nei duri e drammatici anni `20. Immergendoci in tutto ciò che, di miserabile, di vero e di lercio, l’esistenza ci offre. Non solo. Per il cristiano, Dio ha parlato!
La Parola per il Priore non è banalità. A lungo me lo ha urlato nelle orecchie prima di morire: “Cosa ti costa, cosa ti costa Edoardo, lasciarti andare?”
Quindi compito del Sacerdote è quello di dare solo gli strumenti, logici e materiali, per consentire l'accesso alla Parola. Di conseguenza il buon Maestro è quello che ti offre strategie adeguate per organizzarti l'apprendimento. Il Sapere non si travasa. Lo dice lo stesso Socrate, pur vagheggiandolo con forte ironia: “Sarebbe proprio una bella cosa, Agatone, se la Sapienza potesse passare da chi ne possiede di più a chi ne possiede di meno, solo mettendosi uno accanto all'altro, come l'acqua che, attraverso un filtro, scorre da un bicchiere pieno ad uno vuoto ”.
L’amore è, quindi, il suo Strumento. Lo strumento principe. Il grimaldello capace di scardinare la cassaforte dell’egoismo e dell’indifferenza. Anche se non servisse a sbullonare e a smontare il Creato, può però svelarci ogni più piccolo segreto su ciò che serve e necessita a questo nostro piccolo mondo. Su ciò che l’uomo deve apprendere: secondo la sua natura, le sue possibilità, per grazia ricevuta o secondo il limite delle proprie forze morali e intellettuali. Secondo tutto ciò che lo rende meritevole del proprio destino e del compito a lui assegnato.
Ed è proprio l’Amore che lo porta a prendersi cura degli uomini. Tutte le rimanenti cose gli apparvero meschine e spregevoli.
Nella futura società, quella della manipolazione genetica e delle nuove tecnologie della comunicazione, bisognerà ricredere in ciò che è essenziale alla vita per poter condividere le risorse e per salvare noi e il pianeta! Altrimenti, il Dio motore della Storia se né andrà, portandosi dietro tutti i suoi santi, Lorenzo compreso, e chissà per quanto tempo.
IL TEMPO DI BARBIANA
Abstract: Barbiana, la Scuola della sobrietà - Le condizioni oggettive di allora e quelle di adesso. - L’interrogativo: il prodotto o il processo?
Febbraio 2008
“ Il mondo in cui è vissuto don Milani si divideva verticalmente: Est – Ovest, Comunismo - Capitalismo.
Erano i tempi dei grandi principi: Costituzione e Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Lorenzo, siamo alla fine degli anni ’40, si era completamente liberato da tali rigide separazioni.
Coadiutore del parroco a San Donato di Calenzano, aveva diviso il suo popolo orizzontalmente, ossia nell’ottica dei ruoli e delle funzioni.
Erano i tempi in cui il desiderio di giustizia era centrale nelle relazioni umane. Soprattutto nel dopo guerra e a Firenze. Dove sua figura di riferimento era don Facibeni: il prete degli orfani. Dove era sindaco un frate laico: Giorgio La Pira.
Eppure, nonostante la presenza di forti trasversalità, con divario tra città e periferia, il dualismo politico fu determinante nell’escludere una delle figure più significative del ‘900: l’allora cappellano di San Donato, il quale pretendeva soltanto di stare con le persone perché le amava.
Padre Ernesto Balducci, nel riflettere su tale esclusione, si chiede, giustamente, perché don Lorenzo Milani fosse andato a finire lì, in vetta al monte Giovi. Nel porsi tale domanda, commette l’errore imperdonabile, lo faranno tutti gli intellettuali dell’epoca, di descrivere Barbiana come un punto morto. La domanda è lecita, ma ciò che ci rende perplessi è il contesto nel quale la domanda è riflettuta.
Ripete Balducci nei suoi tanti interventi: “Barbiana, pur essendo a mezz’ora di macchina da Firenze, mancava di acqua, di luce, di telefono, di strada. Era Bolivia, era Ghana, era Terzo mondo. Situazioni scomparse, ormai, in qualche modo”.
Perché Balducci riconduce la riflessione sul luogo a prima dell’arrivo del Maestro? Siamo veramente convinti che Barbiana sia soltanto il luogo dell’esclusione?
Non eravamo forse noi un collettivo pensante?
Perché gli intellettuali non hanno mai accettato o pensato la comunità di Barbiana come un’esperienza di democrazia partecipativa?
Ma che idea hanno della povertà? O meglio, che valore danno alla tanto esaltata cultura dei poveri, se invece di affidarsi a loro (come dice Freire: nessuno educa gli altri, ci educhiamo insieme) fanno, come Balducci, affermazioni assurde come questa:
“Ricordo la mia sottile polemica con il grande amico Lorenzo Milani che, nato ricco, si era ridotto a vivere tra i poveri con una specie di furore autopunitivo. Egli aveva della povertà un’idea eroica che lo rendeva intransigente contro la voglia di divertirsi dei suoi ragazzi …”.
Tante volte noi allievi abbiamo cercato di introdurre una riflessione sui toni allegri della nostra scuola. Ma le orecchie sono rimaste sorde!
Siamo interessati al prodotto (sempre più astratto e inventato) o al processo educativo (sempre esaltato, ma mai analizzato) del Priore della Scuola di Barbiana? Il quale richiamandoci all’etimo del divertirsi, (scantonare, fare cose diverse), pur considerando i tempi dell’emergenza del montanaro dei lontani anni ’50 0 ’60 (che andava a lavorare a 15 anni e non aveva quindi il tempo per i “fronzoli”), non ha mai confuso l’autorevolezza educativa con la privazione del piacere, anzi … . Girare il mondo, partecipare ai “sit in” di Bertrand Russel, incontrare gente, vivere le prime esperienze d’autonomia all’estero, partecipare ai primi concerti rock (Beatles e Rolling Stones) , erano aspetti di vita che quasi solo i ragazzi di Barbiana avevano provato alla loro giovane età, 14/17 anni. I loro coetanei di città erano più sedentari. Ma, lasciando perdere ciò che noi allievi abbiamo visto e che altri pare non riescano a vedere, andiamo indietro nel tempo!
Tutti sappiamo che, con l’arrivo di Lorenzo, la parrocchia di Sant’Andrea a Barbiana si trasformerà radicalmente. La sua scuola costruirà la strada, l’acquedotto, i laboratori di falegnameria, di officina e di fotografia. Avevamo tutti gli strumenti del cinema, cinepresa e proiettore. La nostra scuola era un vero e proprio centro editoriale. Il momento della fruizione dello strumento didattico coincideva, spesso, con il tempo e il luogo dove lo si produceva. C’era una forte relazione tra l’apprendimento cognitivo e il lavoro. La realtà - il giornale e gli eventi quotidiani - aveva centralità nei nostri percorsi didattici. Le attività si legavano in primo luogo all’apprendimento linguistico e ci facevano riflettere al vaglio della vita. L’imprevisto era considerato una risorsa indispensabile. Non si programmava, ma si dipanavano le materie attraverso motivi occasionali. Vedi come la lettura dell’articolo dei cappellani militari, 10 righe, diventa ricerca storica. Capace di introdurre il punto di vista del perdente. Prima ancora che diventare un’autodifesa in tribunale. Un modo per apprendere con la testa e con le mani.
Proprio perché esisteva l’apprendimento cooperativo, a Barbiana avevamo la stanza con i tavoli a ferro di cavallo, dove svolgevamo le attività tutti insieme, come la lettura della posta. Le altre stanze servivano per le attività di gruppo. Quando mancava lo spazio o gli argomenti, c’erano i prati, gli alberi e il cielo. Spesso la scuola si spostava all’estero e la chiamavamo vacanza. Questo aspetto “del dopo arrivo” del Maestro, tanto utile non solo a contestualizzare, ma a rendere applicabile il suo pensiero e le sue strategie educative, viene rimosso da padre Balducci.
Gli “intellettuali”, come li chiamava il Priore, si pongono solo nell’ottica di esaltarne la figura eroica a scapito della buona pratica. Perché?
Barbiana era un luogo reale o irreale? In quale luogo il Priore conduceva l’allievo? Mi rendo conto che sto conducendo il lettore in un tempo reale. A sentire tanti pedagogisti di oggi, Barbiana sarebbe diventata ormai una semplice metafora. Un non luogo, utopico per intenderci, quindi irraggiungibile! Forse è proprio per questo motivo che Don Milani è diventato, ormai, più un simbolo o un mito che un maestro concreto: “Certamente nell’utopia pedagogica di don Milani - recita il prof. Franco Cambi nel suo manuale di Pedagogia - sono presenti alcuni limiti e palesi insufficienze, che riguardano sia il volontario e polemico estremismo, sia il non aggiornamento della sua didattica o la marginalità in cui vengono tenute le scienze, ma la sua denuncia resta un fatto centrale nella pedagogia italiana contemporanea e il suo modello alternativo di scuola si mostra ancora ampiamente suggestivo, oltre che indicativo della presenza, nella personalità di don Milani, delle qualità proprie di un educatore di razza”.
Come potete ben verificare, il nostro Priore, che ha passato il suo tempo a demistificare la storia, diventa suo malgrado un mito dell’educazione. Un santino in più da mettere su un piedistallo o in un tabernacolo. Un mito. Attenti perché Mythos, può essere sinonimo di logos: “Barbiana non fu mai, per questo è sempre".
Questa premessa era necessaria, altrimenti non capiremmo questo falso unanimismo attorno al Priore di Barbiana. Se non alziamo l’attenzione al processo educativo rischiamo di mistificare e di non individuare i veri nuclei fondativi della sua pratica d’insegnamento. Se nella pedagogia di Lorenzo Milani individuiamo l’uomo come soggetto responsabile del proprio destino, dobbiamo combattere senza remore l’altro educatore, magari di sinistra, ma sempre più anonimo e omologato (leggi non schierato). Quello che circuisce, magari in modo involontario, con occulta persuasione, che trasmette solo sapere vacuo.
Ma rileggiamo, per meglio capire, una lettera di Lorenzo, scritta nel periodo più fertile: quello che si lega alla tecnica umile - esistevano anche tecniche alla scuola di Barbiana – della scrittura collettiva: “Ho chiesto a Edoardo di prendere a cuore la Lettera a una professoressa e di non far altro dalla mattina alla sera. Vorrei che se ne penetrasse talmente da poter prendere iniziative, sentirsi responsabile,vivere intensamente questo parto. Penso che non ci rimetterà nulla. Fino a ieri viveva indeciso tra il chiasso e un po’ di letture svogliate e qualche piacere a me o alla lettera e mi pareva che sciupasse la vita. Oggi invece era in valvola. Giancarlo seguita un nuovo lavoro statistico (confronto vecchia e nuova media). La Carla batte a macchina, l’Olga fa un interminabile lavoro statistico sull’età dei bocciati … Edoardo e Guido si son presi una parte per uno e hanno fatto un elenco completo delle offese alle professoresse… Il Biondo ha 4 pagine che sta buttando all’aria … Mauro sta segnando di due colori l’ultima parte delle medie per distinguere positivo e negativo … Michele sta rileggendo le sue lettere … Aldo ha passato la sera a fare un disegno a china … Cencio a leggerla per trovare parole difficili … La Andre a contare centinaia di bocciati … E io a pancia all’aria a far nulla …”. Capiamo da queste poche immagini che il Priore ci regala, che il suo metodo d’insegnamento ha nell’aderenza alla realtà e nel rapporto maestro-allievo il suo fulcro vitale. Il maestro conduce l’allievo in una zona, ecco la vera Barbiana, d’intersezione e laica, mai neutrale, tortuosa, affilata e a rischio quale il filo di rasoio. Dove, al posto delle false certezze, incontriamo il primato della coscienza, il libero esercizio della ragione critica e i problemi concreti da risolvere, in un tempo diluito e non scandito dalle campanelle.
Abbiamo dimenticato l’autodifesa di don Milani in tribunale?: “La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori … ”.
Per don Lorenzo Milani, il riavvicinamento dell’uomo al sacro deve passare attraverso l’autonomia del soggetto e non l’indottrinamento, rispettare le diversità, non violare le altre culture. Ecco perché non c’è conflitto tra fede e ragione, tra essere prete e maestro laico.
Note
[1] Casa popolare.
[2] “Autodifesa in tribunale”, 1965.
[3] L a tecnica dei fogliolini non serviva soltanto per la scrittura collettiva. Le parole scritte potevano essere delle semplici idee che l’allievo esprimeva senza interrompere il ritmo della scuola, oppure delle vere e proprie mappe concettuali. Potevano diventare tabelle esplicative oppure grafici, come quelli rimasti appesi sulla parete della scuola. Oppure diventare strumenti immediati di elaborazione comune e multiuso. In questo caso i fogliolini erano i cromosomi. Il razzolare dentro la scatola rappresentava in modo allegro l’atto sessuale.
[4] Lettera a Monsignor Bartoletti del 10.09.58, in Edoardo Martinelli, “Progetto Lorenzo”, Centro Documentazione di Vicchio, 1998, pag. 261.
[5] Frase spesso utilizzata dal Priore per far capire che la verità è storica.
[6] Insegnante alla scuola di Barbiana.
[7] In realtà io ricordo solo la misurazione di un cranio e il gioco che facevamo con la squadra per verificare se l’angolo tra la nostra fronte e l’orecchio era o no di 90°. Ho integrato la storia con l’aiuto di Nevio Santini e Mileno Fabbiani.
[8] Ivan Illich, nel suo bellissimo libro “Nella vigna del testo”, ci ricorda che vacare significa esser stato liberato o liberarsi, che il termine pone l’accento sulla voglia di dedicarsi a un nuovo genere di vita, e non a staccarsi da vecchie abitudini o servitù.
[9] Lettera a una professoressa, 1967, pp. 26/27.
[10] Ibidem