Scuola di Barbiana
Morte
LA MORTE
LA MORTE LA REGALÒ AI SUOI RAGAZZI
di E. Martinelli
La malattia, ormai grave, stava concludendo la parabola della sua breve vita, di uomo e di prete.
Il priore partì da Barbiana che era il 25 aprile, giorno della Liberazione. Prima girò tutta la casa, poi volle rivedere tutte le stanze e, presente la Gina e noi ragazzi, disse: “Chissà se ci ritornerò”. Il giorno avanti aveva bruciato molti documenti nella stufa.
Fino ad allora, Don Lorenzo si era mosso da Barbiana solo per controlli specialistici o trattamenti ospedalieri. Uno di questi brevi viaggi, in cui mi aveva portato con sé a Firenze, è per me indimenticabile. Durante il percorso in macchina attraverso il Mugello, a finestrino aperto, mi aveva dato alcune istruzioni e spiegato la mappa della città. Lasciatomi in San Marco a visitare le celle affrescate dal Beato Angelico, andò a fare la terapia, da lui definita "bombardamento ai raggi x". Ci saremmo trovati più tardi in casa della signora Alice Milani, la mamma, per mangiare. La madre accoglieva noi ragazzi come ospiti di tutto riguardo ed eravamo serviti a tavola né più né meno degli altri. Non ricordo per quale meccanismo, conscio o inconscio, feci quella bizza così decisa. Presi il mio piatto e andai a mangiare con la serva in cucina, lasciando tutti nel più completo imbarazzo. Più tardi Michele mi raccontò che il Priore allargando le braccia disse alla madre: “Cosa vuoi, a me i figlioli mi vengono così!”.
Il rapporto tra don Lorenzo e la madre era singolare. Il fratello Adriano, confiderà di non aver ricevuto baci o abbracci. Il priore era molto tenero e la madre contraccambiava tale tenerezza fino ad abbracciare anche noi. La malattia aveva saldato insieme il nucleo familiare e la gente di Barbiana. A noi parve normale la decisione di tornare a Firenze, in via Masaccio. Sì, volle morire a casa dalla madre come racconta mons. Bensi: “Come poteva mostrarle come muore un prete cristiano, senza offendere il suo dolore e la sua disperazione di madre? Fece leggere a uno dei ragazzi, a turno, la Passione di Cristo nei quattro Vangeli, in un angolo della stanza, lentamente e a bassa voce, senza interruzione”.
Alla sua ultima lezione, volle accanto a sé solo pochi amici, gli allievi e gli abitanti di Barbiana. Solo pochi intellettuali ebbero il permesso di andarlo a trovare. Ci fu anche chi godette di privilegi particolari, come la Marianne, una signora anziana d'origine austriaca che quasi tutti i giorni veniva a trovarlo in via Masaccio e portava sempre un fiore. Per lei la porta era sempre aperta. Don Lorenzo era a lei legato da tenerissimo affetto. Ricordo che quando appariva a Barbiana, dopo essere salita a piedi dalla stazione di Vicchio, il priore faceva sempre una piccola pausa, era commosso dal suo vestire umile e semplice. “Ecco la mia fidanzata”, diceva.
La necessità di avere cure adeguate insieme al rischio di emorragie esterne, un aspetto della malattia che lo terrorizzava, potrebbe suggerire la spiegazione più banale del suo trasferimento a Firenze. La madre rappresentava, insieme ai ragazzi, l'unica sicurezza materiale. Le istituzioni e la sua Chiesa lo avevano abbandonato. Le provviste per il viaggio, per confortarlo, rincuorarlo e sostenerlo nella sua ultima impresa, il viatico per intendersi, lo volle dai suoi ragazzi.
Andando in via Masaccio, volle ospitarci e illuderci, con le sue gioie e le sue tragedie, anche nella sua vecchia casa.
Colmava, con questo suo comportamento, la distanza che lo aveva, per vent'anni, separato da Dio. “ I vent'anni passati nelle tenebre dell'errore ....” . Un insegnamento duro, anche per la madre.
Pochi giorni prima della morte, a Nevio, che gli aveva portato un pò d'acqua per inumidire la bocca, disse: “ Nevio, ti ho insegnato tutto quello che avevo da insegnarti, ora imparerai come si muore! ”.
Ci diceva, sul letto di morte, che bisognava per tempo imparare a morire. Chi non si abbandona alla morte vuol dire che prima non si è abbandonato alla vita, alle passioni e all'amore. Le cose che diceva non erano facili da capire. A volte mi è sembrato violento, avevo solo 17 anni. Una volta, saranno state le 2 o le 3 di notte, tra tanti colpi di tosse, mi tenne sveglio dicendomi: “ Te, Edoardo sei convinto di volermi bene? ”. Mi spiegava che il tipo di affetto che provava per me lo avrei capito da adulto: “quando avrai bambini”. Erano discorsi devastanti. Fatti all'improvviso, dopo che per ore aveva giocato con te, tenendoti a sedere accanto a sé sul letto.
Un giorno, era appena tornato Francuccio dall'Africa, si era messo a fare il trenino: “Ciuffe, ciuffe. Edoardo, monta sul trenino. Siamo sul trenino”. “Vai , dicevo tra me e me, ci siamo”. Invece era lucido. Nella realtà, in treno con lui non ero mai andato e quando lo avevo accompagnato a Firenze in macchina, ricordo che lui faceva sempre la stradina di Sagginale e per Vitereta saliva alle Salaiole. Con il trenino facevamo un altro percorso, quello verso Pontassieve. Riviveva lo scenario del Mugello raccontandomi ciò che vedeva dal finestrino immaginario. Dopo un chiasso indiavolato a questa maniera, non so come facesse a trovare l'energia per giocare, mi consentì di andare a letto. Lui non aveva mai voglia di dormire, magari faceva dei pisoli dopo, quando c'era la gente.
Un'altra notte, mi parlò della fede come di una grazia di Dio, citò anche KierKegaard. A Barbiana ci aveva parlato solo di Socrate, mai ho sentito citare altri filosofi o comunque non me ne ricordo. L'anima spasimante doveva vivere uno "stato d'abbandono". "Cosa ti costa? Cosa ti costa?" mi ripeteva.....
Ero troppo giovane per capire completamente. Ricordo che mi ribellai e che mi contrapposi a un idea che mi parve impossibile, come quella di creder tutto vero un libro, il Vangelo, che a quei tempi mi pareva ancora un testo di novelle. Ebbi paura e pensai, sul momento, che gli uomini perdessero di facoltà di fronte alla morte. Per lui contava la parola rivelata. La gratuità della parola.
Ricordo che abbassava il capo e lo drizzava in uno sguardo improvviso. Ricordo che si arrabbiò vivacemente, quando per mascherare il mio razionalismo feci l'esempio del primitivo che si emoziona e si stupisce davanti: “alla luna su uno stecco”. La mia risposta terminava così, lo ricordo bene, perché ho rivissuto l'episodio attraverso il ricordo e frequentemente. Mi pianse addosso, con il suo capo ormai senza capelli, appoggiato alla mia fronte, come faceva solitamente nella confessione. Pelle contro pelle.
A Giorgio che era più grande e dei ragazzi di San Donato uno di quelli che gli era stato più vicino, dirà: “ Anche tu preghi perché guarisca? ”. E Giorgio: “No, non prego nulla!”. “Meno male perché sono stanco. Non né posso più e voglio morire”.
Dominati dall'insicurezza, dal senso di colpa e da una sostanziale sfiducia nei valori spirituali, noi comuni mortali siamo incapaci di andare con fiducia verso questa profonda avventura. Soli e senza nulla, mostriamo ancora il nostro egoismo inquietante. Per lui, uomo di fede, invece il “Nulla”, nel quale scomparire, non esisteva. La morte fa paura, perché è anche la proiezione della vita, così come è stata e come è ricordata. Il Priore sapeva di avere una malattia letale e di dover fare i conti con la più gelida delle realtà e senza speranza alcuna. Morendo ha rivelato a noi tutti, i due suoi più grandi segreti del suo inquieto vivere: amore e perdono.
Insieme alla carità paolina, ha manifestato l'esperienza dei mistici che non si mettono mai in viaggio con pesanti zavorre, fatte di rimpianti e frustrazioni. Lui, con tutti i pudori, sobrio, austero e riservato, propose all'improvviso il suo corpo in completa nudità.
In tutto questo non c'era volgarità.
Morì nudo, senza dubbi o paure.
In un volto decifrabile, le sue ultime parole che ricordo furono: “Non dar retta ai discorsi Edoardo, si muore nello stesso modo in cui siamo vissuti ”. Con questo intendeva dire che se il nostro fardello non è carico d'amore, non ci resta che aggrapparci all'illusione. Il suo amore invece faceva paura, perché troppo grande, “compromettente” e difficile da contraccambiare.
Ancora c'è chi si chiede se il suo comportamento fu dettato dalla fede o dalla finzione. Sicuramente l'amore ebbe un ruolo determinante! Lo dimostrerebbero le testimonianze degli amici più cari.
Per esempio la Gina: “Nella malattia si è manifestato per quello che è. Senza vergogna si è rimesso nelle vostre mani. Un ragazzo passava a tutte le ore. Noi qualche volta ci hanno fatto aspettare per entrare. Io l'ho fatta l'anticamera per andarlo a trovare. Invece i ragazzi entravano anche se c'erano i medici. A volte li cercava. Probabilmente ha voluto dire: “Sono una persona come voi”, proprio nell'essenzialità delle cose nude e crude, come è la vita di ogni uomo. Deve essere stata una grande soddisfazione essere stati vicini nella sua malattia. A quel tempo vi è costato sacrificio, perché tu te lo vedi sparire. Eravamo agli sgoccioli. Una persona quando arriva a questi punti è come se la facesse parte di te”.
Oppure Giorgio Falossi: “ Alcuni giorni prima di morire, in presenza della mamma e dei ragazzi, mi disse di portare, a salutarlo, la mia moglie e le mie figliole. Si andò un pomeriggio.
Quando s'arrivò c'erano il fratello Adriano e il dottor Abbozzo che gli facevano delle trasfusioni, uno per braccio. Don Lorenzo disse: “Non avvicinatevi altrimenti prendete la scossa”. Ci sedemmo più in là e la mia figliola che aveva 5 anni mi disse in un orecchio: “Babbo, quando si va via si prende l'ascensore?”. E lui subito: “Cosa vuole la bambina?”. “Don Lorenzo, dico io, la Paola ha visto l'ascensore quando siamo arrivati e chiede se lo può prendere quando si esce”. E don Lorenzo: “Adriano per piacere porta la bambina a fare una giratina con l'ascensore”. Il professore Adriano staccò i tubi da un braccio e, presa la bambina per mano, fece tre o quattro viaggi con l'ascensore. Poi tornò a fare la trasfusione. Tutti erano rimasti di sale”.
A proposito e a distanza Adriano così parlava del fratello, pensando a tale episodio: “Lorenzo è l'amore, non si può pensare a un amore più perfetto del suo. Lorenzo ama con animo d'artista”.
Ho sempre nel cuore quando, pochi giorni prima di morire, il venerdì, ci raccontava quello che si preparava in Paradiso per il suo arrivo: “C'è un gran ballo di angeli e santi, tutti vestiti di bianco che mi aspettano. Una gran luce e una gran gioia. E si suona la marcia nuziale. Pensate, per me che non sono mai stato sposato, si suona la marcia nuziale”. Io sedevo accanto a lui sul panchettino e piangevo in silenzio. Il priore vedendomi disse con voce scherzosa: “Quando morirai te cosa ti suoneranno?” Per ragioni di salute non avevo mai corso in vita mia. Risposi: “Suoneranno la marcia dei bersaglieri perché in Paradiso mi metterò a correre anch'io”.
Oppure Mario Rosi: “ Fino all'ultimo si è sentito Maestro. Anche il suo desiderio che si andasse a fargli nottata diventava un insegnamento: “Potrei non avere alcuna necessità. Potrei anche pigliare un infermiere che sarebbe più abile di voi”. Ma voleva che si vedesse che cos'è la morte, la sofferenza giorno per giorno prima della morte. Pativa in un modo davvero indicibile.
Ad un certo momento la ghiandola ipofisi non gli funzionò più, e perdeva acqua in continuazione. Si era disidratato. Una notte, proprio mentre gli inumidivo le labbra, fece: “Quanto è bella l'amicizia, specialmente quando siamo in situazioni simili”. Ed è vero. Se l'amicizia è una cosa salda, lo si vede quando uno soffre per un'altra persona che soffre. La sua era ancora una scuola”.
Ancora la Gina: “ A Adriano chiese quanto gli restava da vivere. E' morto cosciente. L'Eda m'ha raccontato che la mattina che morì andò per salutarlo e lui le disse: “Eda finalmente mi è cambiata la malattia”. “ Dio volesse” rispose l'Eda, e don Lorenzo: “ Ho una emorragia interna”.
Una volta si venne e non ci fecero entrare perché appunto lui doveva essere tutto nudo sul letto, perché non sopportava le coperte o il lenzuolo. Era di giugno e faceva caldo. Negli ultimi tempi di Barbiana quando salivo con i bambini, lui ci scherzava sempre e li voleva vicino. Mi ricordo che a Sandro e alla Gianna gli disse: “Quando sarò morto, dovrete venire sulla mia tomba con un secchio d'acqua e gettarmela sopra, perché il Priore ha sempre caldo e allora mi rinfrescate”.
Si sentiva questo gran fuoco dentro. Un fatto crudo me lo disse anche Quintilio, una notte la fece anche lui. Disse: “E' un uomo ridotto al punto da non riuscire a pisciare da solo”.
La bocca, per un paio di settimane, gli era diventata una piaga. Doveva bere molti liquidi. I ragazzi a turno lo accudivano, il giorno e la notte. Non potendo più parlare si mise a scrivere bigliettini. Alcuni li scrisse anche a don Bensi in una visita nei due mesi di malattia terminale. Così descrive tale momento il vecchio sacerdote, scosso dall'emozione: “Me li scrisse quando andai a vederlo l'ultima volta. Molto belli, almeno per me. Mi dicono tanto, perché rivivo quella scena orrenda. Per vincere la commozione, ci si difendeva un po' tutti e due con l'ironia. Mi scrisse un biglietto: “Mi diverte l'idea che oggi parlo peggio del mio Marcello”. Cercai di ribattere nello stesso tono: “Ma si può sapere che cosa vuoi? Sei insopportabile! Hai un dottore per le ciglia, un dottore per le unghie del piede sinistro. Questa non è l'agonia d'un povero prete!”. E lui scrisse la risposta: “Perché mi prende in giro della mia morte super organizzata? Non le piace?” e accennando ai suoi ragazzi che, come al solito, erano nella camera: “ Io non ho mai fatto a nessuno quello che questi figlioli fanno a me. Passo le nottate a ammirarli”. E in un altro biglietto: “Ora comincio a essere stanco oltre i limiti della mia capacità. Ma spero che non sia una bestemmia”. E in un altro ancora, accennando all'ultima eucarestia che aveva avuto: “Era difficile indovinare meglio il giorno del Viatico, perché il giorno dopo non potevo più inghiottire”.
Non tornai a trovarlo. Glielo dissi: “Abbi pazienza, ma io a vederti morire non ci sto”. Fu la sua mamma a telefonarmi la notizia della morte”.
Ricorda ancora la Gina: “L'ultima volta che andai a trovarlo, non ci fecero entrare. Si rimase sulle scale con altre donne. Facevano entrare solo voi ragazzi e l'Eda. Non si poteva entrare perché era nudo. Morì come san Francesco. S'aspettò fino alle due del pomeriggio, poi si tornò a casa. In serata giunse la notizia della morte.
A Firenze siamo andati a trovarlo quattro o cinque volte. Si è avuto delle conversazioni in comune e per esempio ci ha fatto leggere dei brani dei libri o dei salmi. Andavamo a pregare per lui, praticamente. Una di queste volte disse: “Io sono convinto, c'era anche l'Eda che spesso stava laggiù, che tra 10 anni se non va più di moda suonare il claxon alle curve, quella bischera della Gina e dell'Eda le diranno ai loro figlioli: “ il priore diceva che bisogna suonare”. Sono convinto che forse queste due le rimarranno ferme e legate a quello che mi è uscito dalla bocca”. Voleva dire che se le cose stanno cambiando, dobbiamo cambiare anche noi. Il mondo evolve e cambia, questo era l'insegnamento. Aveva capito quanto si dipendeva da tutto ciò che lui diceva.
Quando si ebbe la notizia che era morto si tornò a trovarlo che era già vestito e esposto. Poi si tornò ad aspettarlo a Barbiana dove si fece la veglia tutta la notte in camera sua. Io non la feci intera come i ragazzi. Durò parecchio questa notte. Poi ci fu il funerale”.
Anche Florit sarà accanto a don Milani un mese prima della morte. Lo racconta la madre in una intervista concessa a padre Nazzareno Fabbretti: “ Sì, è in questa stanza che venne il cardinale. Fu una cosa penosa. Mi sentivo a disagio. Lorenzo era lucidissimo, anche se non poteva parlare, e il cardinale non trovava che pietose parole, frasi d'occasione per aiutarlo: “Offra tutto al Signore. Coraggio”. Solo per me, ricordo bene, mentre stava per uscire, ebbe una parola più umana. Mi disse: “Non le dico di avere pazienza, di pazienza ne ha già avuta tanta”.
Poco prima il Priore aveva consegnato al cardinale un fogliolino: “E' venuto perché le hanno detto che non posso più parlare?. Una situazione imbarazzante e fortemente emotiva, infatti il sacerdote più giovane che accompagnava il cardinale era scoppiato in lacrime.
Così scriverà il cardinale, nel suo diario alla pagina del 21 maggio 1967, descrivendo l'ultimo incontro: “Alle ore 9,30 mi recai in casa di don Milani. Sembra grave. Stenta molto a parlare. Malgrado tutto l'ho baciato alla fine. Due suoi allievi non si sono mossi mi hanno guardato di malocchio e così una religiosa calasanziana (Rosa Maria) che dice di essere del cenacolo di padre Balducci e una nevrastenica professoressa di Borgo S. Lorenzo”.
Dirà il Priore due giorni prima di morire: “ Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza: un cammello passa per la cruna di un ago”.
Era lui la morte. Un piccolo rigolo di sangue e due occhi sgranati in avanti indifferenti al gioco della vita. Morì seduto, proteso in avanti e sostenuto da Michele. Il suo corpo non lo teneva più prigioniero dentro la carne e le ossa.
Moriva il 26 giugno del 1967 ad appena 44 anni. Nel testamento lasciato a noi ragazzi scrive: “Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non ho punti debiti verso di voi, ma solo crediti. Verso l'Eda invece ho solo debiti e nessun credito. Traetene le conseguenze sia sul piano affettivo che su quello economico. Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo
P. S. Quando ho scritto che non ho nessun debito verso di voi facevo per dire.
Cari altri, non vi offendete se non vi ho rammentato. Questo non è un documento importante, è solo un regolamento di conti di casa. Le cose che avevo da dire le ho dette da vivo fino a annoiarvi. Un abbraccio affettuoso, vostro Lorenzo
Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L'ho scritto per dar forza al discorso!
Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto.
Un abbraccio, vostro Lorenzo
Che i rapporti con la gerarchia ecclesiastica fossero molto tesi lo si deduce dalla lettera scritta al suo avvocato, un amico rimasto comunque carissimo, il quale faceva parte del gruppo di cattolici fiorentini che Lorenzo aveva cacciato via da Barbiana. Il Priore ironizza, indossando gli abiti da giullare, e ridicolizza i “malinformatori” del vescovo.
Caro Giancarlo, ripensandoci ho pensato che nel testamento che hai ora c'è un particolare che non va. Ti prego perciò di farlo a fette come i precedenti. Ne ho fatto uno nuovo (quasi identico salvo nella correzione) e l'ho dato a don Cesare.
Un prete classista (come dice il Cardinale) non può lasciare il testamento a un avvocato. So bene che per questa cosa e per il resto avrei potuto fare un'eccezione per te e per pochi altri. Ma cosa vuoi. Noi classisti non guardiamo in faccia a nessuno, manchiamo di carità pastorale e abbiamo altri difetti.
Saluti classisti tuo Lorenzo
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Testimonianze
di Gina Carotti, Adele Corradi, Giorgio Falossi, Giorgio Pelagatti, Mario Rosi
e gli allievi: Nevio Santini e Edoardo Martinelli.